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Santi del 17 Settembre

Il mio Santo > I Santi di Settembre

*Beato Antonio Morell - Mercedario (17 Settembre)

+ 15 giugno 1492
Originario di Tolosa (Francia), il Beato Antonio Moreli era professore e decano dell'Università tolosana esperto nelle lingue: latina, greca, ebraica e nelle altre lingue orientali.
XXII° Maestro Generale dell'Ordine Mercedario, rimase in carica per 12 anni, fu eletto il 25 febbraio 1480, durante il suo generalato l'Ordine conseguì un grande impulso in Francia.
Nel 1482, i due redentori, Santi Giovanni Zorrosa e Giovanni Huete inviati da lui a Granada in Spagna, furono catturati e martirizzati dai mori.
Impareggiabile e famoso per i meriti, morì santamente il 15 giugno 1492, il suo corpo fu sepolto nel suo convento di Santa Maria in Tolosa.
L'Ordine lo festeggia il 17 settembre.

(Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beato Antonio Morell, pregate per noi.

*Beato Cherubino Testa da Avigliana - Sacerdote Agostiniano (17 Settembre)
Avigliana, Torino, 1451 - Avigliana, Torino, 17 settembre 1479
Nacque nel 1451 ad Avigliana (Torino), dove a 20 anni entrò nell'Ordine Agostiniano.
Morì il 17 settembre del 1479 appena nove mesi dopo l'ordinazione sacerdotale. Si distinse per spirito di obbedienza, purezza di vita e devozione alla passione di Cristo.
Il suo culto, confermato da Pio IX nel 1865, è ancora vivissimo in Avigliana e dintorni.
Le sue spoglie mortali sono esposte alla venerazione dei fedeli nella chiesa parrocchiale dei Santi Giovanni e Pietro in Avigliana.

Martirologio Romano: Ad Avigliana presso Torino, Beato Cherubino Testa, sacerdote dell’Ordine degli Eremiti di Sant’Agostino, che ebbe grande devozione per la Passione del Signore.
Appartenente alla nobile famiglia Testa, Cherubino nacque ad Avigliana (Torino) nel 1451. Abbracciata ben presto la vita religiosa, vestì l'abito degli Eremitani di Sant'Agostino nel locale convento dell'Ordine, fondato dal Beato Adriano Berzetti da Buronzo.
Qui condusse, sino alla fine della sua breve esistenza, un'austera vita di mortificazione e di santità, improntata sempre a un profondo spirito di obbedienza e a un'immensa pietà, distinguendosi, inoltre, per la sua purezza e per la particolare profonda devozione alla Passione di Cristo, tanto da trascorrere gran parte della sua giornata piangendo, in estatica contemplazione di Gesù crocifisso.
Cherubino si spense, ventottenne, il 17 settembre 1479 nello stesso convento aviglianese.
Si narra che, nel momento in cui esalò l’ultimo respiro, le campane del luogo si misero a suonare da sole prodigiosamente, quasi ad annunziare il felice transito dell'anima sua in paradiso.
In un dipinto esistente un tempo nel chiostro dell'antico convento agostiniano di Tolentino, nelle Marche, il Beato Cherubino era raffigurato con l'aureola, un giglio geminato sul cuore e un crocifisso nella mano destra; sotto l’immagine si poteva leggere la seguente iscrizione: Beatus Cherubinus de Aviliana, conventus S. Augustini Avilianae magnus splendor.
La ragione per cui veniva rappresentato con il giglio germogliante dal cuore è spiegata da taluni antichi scrittori agostiniani, quali, ad esempio, il Torelli e l’Elsen, col fatto che, avvertendo i suoi confratelli un soave olezzo sprigionarsi dal suo sepolcro ogni qualvolta vi passavano davanti per recarsi in coro, fu deciso di esumare il corpo del Beato per trasferirlo in una più degna sepoltura.
All'apertura del sepolcro si vide che un odoroso giglio era spuntato miracolosamente dal suo cuore.
Tali prodigi, verificatisi dopo la sua morte, favorirono l’immediata affermazione del culto in suo onore, conservatosi sempre vivo nel tempo, così da ottenere solenne conferma da parte di Pio IX, il 21 settembre 1865.
La sua memoria liturgica ricorre il 17 settembre, mentre l'Ordine degli Agostiniani lo ricorda il 16 dicembre.

(Autore: P. Bruno Silvestrini O.S.A. – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beato Cherubino Testa da Avigliana, pregate per noi.

*Santa Colomba di Cordova - Martire (17 Settembre)
Martirologio Romano: A Córdova nell’Andalusia in Spagna, Santa Colomba, vergine e martire, che durante la persecuzione dei Mori professò spontaneamente la sua fede davanti al giudice e al consiglio cittadino e fu prontamente decapitata con la spada davanti alle porte del palazzo.
Le notizie sulla famiglia, la vita e il martirio di Colomba sono tramandate dal contemporaneo Sant'Eulogio che le dedica il lungo cap. X del 1. III del suo Memoriale Sanctorum (PL, CXV, coll. 806-12).
Fin dai teneri anni Colomba si sentì attratta ad una vita di dedizione totale al Signore, sull'esempio della sorella maggiore Elisabetta la quale, unitamente al marito Geremia, conduceva nel mondo una vita di grande perfezione ed ascesi. La madre, che aveva tentato di opporsi alla sua vocazione preparandole il matrimonio, fu da un'improvvisa malattia portata alla tomba.
Dopo qualche tempo trascorso a Cordova, Colomba abbandonò, insieme con Elisabetta e Geremia, la città per condurre vita religiosa nel doppio monastero, fondato da questi ultimi a Tábanos nella Sierra de Córdoba, governato dal fratello abate Martino, e per la parte femminile dalla stessa Elisabetta.
Colomba ben presto si distinse nello studio delle Scritture e nella santità di vita tanto da divenire per tutti di esempio. Eulogio la dice «in conversatione laudabilis, in humilitate sublimis, in castitate perfecta, in charitate firma, in exorando attenta, ad obediendum apta, ad miserandum clemens, ad indulgendum facilis, ad praedicandum diserta, ad instruendum prompta». La sua fama si sparse anche fuori del monastero e molti accorrevano a lei per consiglio ed aiuto.
Infierendo la persecuzione nei primi tempi del governo di Maometto I, le monache di Tábanos si ritirarono in Cordova in una loro casa nei pressi della basilica di San Cipriano.
Nell'852 si era tenuto a Cordova un concilio di vescovi nel quale, per evitare abusi, provocazioni e disordini, si era proibito ai cristiani di presentarsi spontaneamente al martirio.
Ma Colomba, forse ignara del decreto, un giorno, mossa da impulso interiore, abbandonò segretamente il monastero e si presentò spontaneamente al giudice, dichiarandosi cristiana e invitandolo ad abbandonare l'errore.
Portata poi davanti al consiglio cittadino (satrapum concilio) difese la fede cattolica e proclamò la sua dedizione totale a Cristo.
Fu decapitata il 17 settembre 853 davanti al palazzo del governo, dopo aver offerto un dono al suo carnefice. Il suo corpo, gettato nel Guadalquivir e ritrovato illeso ed integro dopo sei giorni, fu sepolto nella basilica di Sant'Eulalia a Fragellas.
Le reliquie di Colomba sembra siano state portate più tardi nell'abbazia di Santa Maria de Nájera e nel priorato, da essa dipendente, di Santa Colomba.
La sua festa è celebrata in gran parte della Spagna nel suo dies natalis, il 17 settembre. Usuardo, che pur incontrò Eulogio nell'852, non la menziona nel suo Martirologio. I redattori del Martirologio Romano del 1583 introdussero il suo elogio al 17 settembre.

(Autore: Gian Michele Fusconi - Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Santa Colomba di Cordova, pregate per noi.

*Sant'Emanuele Nguyen Van Trieu - Martire (17 Settembre)

Martirologio Romano: A Huê in Annamia, ora Viet Nam, Sant’Emanuele Nguyễn Văn Triệu, sacerdote e martire sotto il regime di Cảnh Thịnh.
(Fonte: Enciclopedia dei Santi)

Giaculatoria - Sant'Emanuele Nguyen Van Trieu, pregate per noi.

*Santa Feme - Vergine (17 Settembre)

Feme è una santa di cui non conosciamo nulla. Esiste una tradizione irlandese che la ritiene una dei molti figli di Dediva e del suo terzo marito, Cirell.
Se questa tradizione fosse confermata, Santa Feme sarebbe la sorella di San Daig, vescovo di Inis Caoin, morto nel 586.
E secondo questo dato la sua esistenza si potrebbe collocare nel VI secolo.
Secondo un dizionario dei Santi dei primi nel Novecento, Santa Feme viene festeggiata nel giorno 17 settembre.

(Autore: Mauro Bonato - Fonte: Enciclopedia dei Santi)

Giaculatoria - Santa Feme, pregate per noi.

*Beato Filippo Oderisi di Nocera Umbra - Vescovo (17 Settembre)
† 17 settembre 1285

Il Beato Filippo Oderisi è un vescovo di Nocera Umbra. Nella cronotassi ufficiale della diocesi, figura dopo l’amministratore apostolico Bernardo Merganti e prima del vescovo Fidemondo.
Il Beato Filippo, prima di esser nominato vescovo, era un eremita di Fonte Avellana.
Governò la diocesi dal 1254 al 1285.
Morì il 17 settembre 1285.
Il culto per il beato Filippo risale fin dai tempi antichi.
Il suo successore Vergineo Florenzio, nel 1623, trasportò le sue reliquie dalla chiesa di Sant’Agnese al duomo della città.
Nel refettorio di Fonte Avellana, esiste un’antica immagine del Beato Filippo.
Il menologio dell’ordine camaldolese lo ricorda e lo festeggia nel giorno 17 settembre.

(Autore: Mauro Bonato - Fonte: Enciclopedia dei Danti)

Giaculatoria - Beato Filippo Oderisi di Nocera Umbra, pregate per noi.

*San Francesco d'Assisi - Impressione delle Stimmate (17 Settembre)

Il Martirologio Romano al 17 settembre rievoca: “Sul monte della Verna, in Toscana, la commemorazione dell'Impressione delle sacre Stimmate, che, per meravigliosa grazia di Dio, furono impresse nelle mani, nei piedi e nel costato di san Francesco, Fondatore dell'Ordine dei Minori”. Poche e sintetiche parole per descrivere un evento straordinario, e mai sino ad allora verificatosi, che si compì sul monte della Verna, mentre un’estate della prima metà del ‘200 volgeva al termine, e che schiere innumerevoli di Santi, uomini e donne di Dio, ripeterono nella loro vita.
Anche numerosi artisti si ispirarono a quel primo episodio, immortalandolo in tele ed affreschi. Basti solo ricordare qui, tra i più famosi, quelli di Giotto nella Basilica superiore del Poverello in
Assisi. Poche parole quelle del Martirologio, dunque. Maggiori dettagli li forniscono i primi biografi del Santo. In special modo, San Bonaventura da Bagnoregio che, nella sua “Legenda Major”, non manca di riferirne con dovizia anche i particolari.
Correva l’anno 1224.
San Francesco d’Assisi, due anni prima di morire, voleva trascorrere nel silenzio e nella solitudine quaranta giorni di digiuno in onore dell'arcangelo San Michele.
Era, del resto, abitudine del Santo d’Assisi ritirarsi, come Gesù, in luoghi solitari e romitori per attendere alla meditazione ed all’unione intima con il Signore nella preghiera.
Sapeva, infatti, che ogni apostolato era sterile se non sostenuto da una crescita spirituale della propria vita interiore. Molti luoghi dell’Umbria, della Toscana e del Lazio vantano di aver ospitato il Poverello d’Assisi in questi suoi frequenti ritiri.
La Verna era uno di questi e certamente era quello che il Santo prediligeva. Già all’epoca di Francesco era un monte selvaggio – un “crudo sasso” come direbbe Dante Alighieri – che s’innalza verso il cielo nella valle del Casentino. La sommità del monte è tagliata per buona parte da una roccia a strapiombo, tanto da farla assomigliare ad una fortezza inaccessibile. La leggenda vuole che la fenditura profonda visibile, con enormi blocchi sospesi, si sia generata a seguito del terremoto che succedette alla morte di Gesù sul Golgota.
Esso era proprietà del conte Orlando da Chiusi di Casentino, il quale, nutrendo una grande venerazione per Francesco, volle donarglielo. Qui i frati del Poverello vi costruirono una piccola capanna.
In quello luogo Francesco era intento a meditare, per divina ispirazione, sulla Passione di Gesù quando avvenne l’evento prodigioso. Pregava così: “O Signore mio Gesù Cristo, due grazie ti priego che tu mi faccia, innanzi che io muoia: la prima, che in vita mia io senta nell’anima e nel corpo mio, quanto è possibile, quel dolore che tu, dolce Gesù, sostenesti nella ora della tua acerbissima passione, la seconda si è ch' io senta nel cuore mio, quanto è possibile, quello eccessivo amore del quale tu, Figliuolo di Dio, eri acceso a sostenere volentieri tanta passione per noi peccatori”.
La sua preghiera non rimase inascoltata.
Fu fatto degno, infatti, di ricevere sul proprio corpo i segni visibili della Passione di Cristo. Il prodigio avvenne in maniera così mirabile che i pastori e gli abitanti dei dintorni riferirono ai frati di aver visto per circa un’ora il monte della Verna incendiato di un vivo fulgore, tanto da temere un incendio o che si fosse levato il sole prima del solito.
Scriveva S. Bonaventura da Bagnoregio: “Un mattino, all'appressarsi della festa dell'Esaltazione della santa Croce, mentre pregava sul fianco del monte, vide la figura come di un serafino, con sei ali tanto luminose quanto infocate, discendere dalla sublimità dei cieli: esso, con rapidissimo volo, tenendosi librato nell'aria, giunse vicino all'uomo di Dio, e allora apparve tra le sue ali l'effige di un uomo crocifisso, che aveva mani e piedi stesi e confitti sulla croce. Due ali si alzavano sopra il suo capo, due si stendevano a volare e due velavano tutto il corpo.
A quella vista si stupì fortemente, mentre gioia e tristezza gli inondavano il cuore. Provava letizia per l'atteggiamento gentile, con il quale si vedeva guardato da Cristo, sotto la figura del serafino. Ma il vederlo confitto in croce gli trapassava l'anima con la spada dolorosa della compassione. Fissava, pieno di stupore, quella visione così misteriosa, conscio che l'infermità della passione non poteva assolutamente coesistere con la natura spirituale e immortale del serafino.
Ma da qui comprese, finalmente, per divina rivelazione, lo scopo per cui la divina provvidenza aveva
mostrato al suo sguardo quella visione, cioè quello di fargli conoscere anticipatamente che lui, l’amico di Cristo, stava per essere trasformato tutto nel ritratto visibile di Cristo Gesù crocifisso, non mediante il martirio della carne, ma mediante l'incendio dello spirito” (Leg. Maj., I, 13, 3).
Fu Gesù stesso, nella sua apparizione, a chiarire a Francesco il senso di tale prodigio: “Sai tu … quello ch' io t’ho fatto? Io t’ho donato le Stimmate che sono i segnali della mia passione, acciò che tu sia il mio gonfaloniere.
E siccome io il dì della morte mia discesi al limbo, e tutte l’anime ch' io vi trovai ne trassi in virtù di queste mie Istimate; e così a te concedo ch' ogni anno, il dì della morte tua, tu vadi al purgatorio, e tutte l’anime de’ tuoi tre Ordini, cioè Minori, Suore e Continenti, ed eziandio degli altri i quali saranno istati a te molto divoti, i quali tu vi troverai, tu ne tragga in virtù delle tue Istimate e menile alla gloria di paradiso, acciò che tu sia a me conforme nella morte, come tu se’ nella vita” (“Delle Sacre Sante Istimate di Santo Francesco e delle loro considerazioni”, III considerazione).
Continuava ancora San Bonaventura che, scomparendo, la visione lasciò nel cuore del Santo “un ardore mirabile e segni altrettanto meravigliosi lasciò impressi nella sua carne.
Subito, infatti, nelle sue mani e nei suoi piedi, incominciarono ad apparire segni di chiodi, come quelli che poco prima aveva osservato nell'immagine dell'uomo crocifisso.
Le mani e i piedi, proprio al centro, si vedevano confitte ai chiodi; le capocchie dei chiodi sporgevano nella parte interna delle mani e nella parte superiore dei piedi, mentre le punte sporgevano dalla parte opposta. Le capocchie nelle mani e nei piedi erano rotonde e nere; le punte, invece, erano allungate, piegate all'indietro e come ribattute, ed uscivano dalla carne stessa, sporgendo sul resto della carne. Il fianco destro era come trapassato da una lancia e coperto da una cicatrice rossa, che spesso emanava sacro sangue, imbevendo la tonaca e le mutande” (Leg. Maj., I, 13, 3).
A proposito ancora dei segni della Passione, il primo biografo del Santo, l’abruzzese Tommaso da Celano, nella sua “Vita Prima di S. Francesco d’Assisi”, sosteneva che “era meraviglioso scorgere al centro delle mani e dei piedi (del Poverello d’Assisi), non i fori dei chiodi, ma i chiodi medesimi formati di carne dal color del ferro e il costato imporporato dal sangue. E quelle stimmate di martirio non incutevano timore a nessuno, bensì conferivano decoro e ornamento, come pietruzze nere in un pavimento candido” (II, 113).
Nonostante le ampie descrizioni e resoconti ed il fatto che vi fossero numerosi testimoni oculari delle stigmate, non può tacersi la circostanza che la bolla di canonizzazione di S. Francesco del 19 luglio 1228 “Mira circa nos”, risalente ad appena due anni dopo la morte del Santo, non ne faccia alcun cenno.
Non mancarono in verità, già da parte di alcuni contemporanei, contestazioni ed opposizioni, ritenendo quei segni impressi nelle carni del Patrono d’Italia frutto di una frode.
Lo stesso Gregorio IX, prima di procedere alla canonizzazione di Francesco, pare nutrisse dei dubbi riguardo a quel fatto prodigioso. E’ sempre San Bonaventura, nel capitolo della sua “Legenda Major” dedicato alla “Potenza miracolosa della Stimmate” del Poverello, a parlarne.
Scriveva che “Papa Gregorio IX, di felice memoria, al quale il Santo aveva profetizzato l’elezione alla cattedra di Pietro, nutriva in cuore, prima di canonizzare l’alfiere della croce (cioè San Francesco), dei dubbi sulla ferita del costato.
Ebbene, una notte, come lo stesso glorioso presule raccontava tra le lacrime, gli apparve in sogno il Beato Francesco che, con volto piuttosto severo, lo rimproverò per quelle esitazioni e, alzando bene il braccio destro, scoprì la ferita e gli chiese una fiala, per raccogliere il sangue zampillante che fluiva dal costato.
Il sommo Pontefice, in visione, porse la fiala richiesta e la vide riempirsi fino all'orlo di sangue vivo. Da allora egli si infiammò di grandissima devozione e ferventissimo zelo per quel sacro miracolo, al punto da non riuscire a sopportare che qualcuno osasse, nella sua superbia e presunzione, misconoscere la realtà dei quei segni fulgentissimi, senza rimproverarlo duramente” (Leg. Maj., II, 1, 2). Tale episodio fu magistralmente rievocato da Giotto negli affreschi della Basilica superiore del Santo in Assisi.
La Chiesa, comunque, dopo maturo giudizio, con ben nove bolle pontificie (di Gregorio IX, di Alessandro IV e di Niccolò III), susseguitesi tra il 1237 ed il 1291, difese la realtà delle stigmate
di Francesco, senza peraltro esprimere un’interpretazione definitiva del fenomeno, la cui genesi è soprannaturale e deriva dall’Amore.
Non a caso un dottore della Chiesa, San Francesco di Sales, nel suo “Trattato dell'amor di Dio” del 1616, metteva in relazione le stigmate del Santo d'Assisi con l'amore di compassione verso il Cristo crocifisso, affermando che quest’ultimo trasformò l’anima del Poverello in un “secondo crocifisso”. San Giovanni della Croce aggiungeva che le stigmate sono la manifestazione, la conseguenza della ferita d'amore e che per renderle visibili occorresse un intervento soprannaturale.
La Chiesa riconobbe la straordinarietà del fenomeno verificatosi nel 1224, inteso quale segno privilegiato concesso da Cristo al suo umile servo di Assisi, anche da un punto di vista liturgico, inserendo la ricorrenza nel calendario.
Papa Benedetto XI Boccasini da Treviso, infatti, concesse all’Ordine Francescano ed all’intero Orbe cattolico di celebrarne annualmente il ricordo il 17 settembre.

(Autore: Francesco Patruno - Fonte: Enciclopedia dei Santi)

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*San Francesco Maria da Camporosso (Giovanni Croese) - Laico Cappuccino (17 Settembre)

Camporosso, Imperia, 27 dicembre 1804 - Genova, 17 settembre 1866
Al secolo Giovanni Croese, frate minore cappuccino, detto “Padre Santo” visse a Genova, distinguendosi per le opere di carità. Padre Francesco Maria da Caporosso, fu l’umile cappuccino che tutta Genova amò per le sue opere di bene, il frate sempre in movimento nei carruggi della
città, fra i “caravana” del porto, nei quartieri più colpiti dal colera sino ad esserne contagiato.
Fu beatificato nel 1929 da Papa Ratti e venne proclamato santo da Papa Giovanni XXIII, il 9 dicembre 1962.

Etimologia: Francesco = libero, dall'antico tedesco
Martirologio Romano: A Genova, san Francesco Maria da Camporosso, religioso dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini, insigne per la sua carità verso i poveri, che, al dilagare della peste, contrasse egli stesso la malattia, offrendosi come vittima per la salvezza del prossimo.
Nacque il Beato Francesco Maria il 27 dicembre 1804 da Giovanni Croese e da Maria Antonia Garzo a Camporosso, un paesino sulla riviera ligure di Ponente, nell’attuale provincia di Imperia.
Due giorni dopo la sua nascita venne battezzato col nome paterno di Giovanni.
Da sua madre, per la quale la fede era luce e forza di vita, il piccolo Giovanni ricevette i primi insegnamenti di quella pietà semplice e profonda, che dovevano più tardi svilupparsi nelle virtù della
vita cristiana e mettere intorno al suo capo l’aureola di santità.
Ancora ragazzo, fu pastore del piccolo gregge paterno, e fatto grandicello, aiutò il padre nel duro lavoro dei campi.
Ricevette nella festa del Corpus Domini del 1816, la prima Comunione, dopo di che cadde gravemente infermo e guarì per l’intercessione della Madonna del Laghetto, che si venera presso Nizza.
A l7 anni, udita la voce di Dio che lo chiamava a una vita più perfetta, entrò fra i Minori Conventuali in qualità di terziario. Ma dopo fervorose preghiere alla Beata Vergine e col consiglio di illuminati religiosi abbracciò la vita religiosa fra i Minori Cappuccini, entrandovi come novizio il 7 dicembre 1825 col nuovo nome di Francesco Maria.
Durante il noviziato ebbe modo di rivelarsi la squisita bellezza dell’anima di frate Francesco e di svilupparsi quell’ardore di carità per il Signore e per il prossimo che doveva fare di lui umile laico cappuccino, il benefattore dell’intera città di Genova.
Difatti, appella finito il noviziato, il beato fu destinato al convento della SS. Concezione di Genova, dapprima come aiuto nella cucina e come infermiere, poi come questuante, nel quale ufficio trascorse circa 40 anni cioè quasi tutta la sua vita di religioso.
Una vita non ricca di avvenimenti grandiosi, ma piena di luce e di una bontà ingegnosamente operosa e inesauribile. Nel quartiere del porto e del deposito franco, ove in particolar modo si svolse
l’attività di frate Francesco, la sua figura alta, simpatica, piena di modestia e di grazia, esercitava un fascino straordinario su quanti l’avvicinavano.
Ogni dolore umano trovava nel beato una dolce parola di conforto e una luce di cristiana speranza. La gente di mare specialmente ricorreva a lui con commovente fiducia, mai venuta a meno sino a oggi.
Fu proprio di mezzo al popolo che sorse il grido di “Padre santo” per designare frate Francesco ed esprimere l’ammirazione e la gratitudine di quanti erano stati beneficati dalla carità dell’umile.
Quando verso l’estate del 1866 scoppiò una furiosa epidemia in Genova, non recò meraviglia, ma solo profonda commozione, il sapere ehe il “Padre santo” aveva offerto al Signore la sua vita in olocausto, onde far cessare il flagello che aveva colpito la sua città diletta.
Era la suprema prova di amore che il laico cappuccino offriva ai suoi fratelli sofferenti, prova accettata da Dio il 17 settembre 1866.
La causa di Beatificazione introdotta il 9 agosto 1896 fu compiuta da Pio XI il 30 giugno del 1929.  

(Autore: Antonio Galuzzi - Fonte: Enciclopedia dei Santi)

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*Beato Giovanni Ventura Solsona - Sacerdote e Martire (17 Settembre)
Schede dei gruppi a cui appartiene:
"Beati 233 Martiri Spagnoli di Valencia Beatificati nel 2001"
"Martiri della Guerra di Spagna"

Martirologio Romano: Nel villaggio di Castillo de Villamalefa vicno a Castellón de la Plana in Spagna, Beato Giovanni Ventura Solsona, sacerdote e martire, che, durante la persecuzione, passò alla gloria del cielo invitto per la sua fermezza nella fede.
(Fonte: Enciclopedia dei Santi)
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*Sant'Ildegarda di Bingen (17 Settembre)
Kreuznach, castello di Böckenheim (Germania), 1098 - Bingen (Germania), 17 settembre 1179
Nasce a Bermesheim nel 1098, ultima di dieci figli.
Il suo nome di battesimo, tradotto letteralmente, significa «colei che è audace in battaglia».
Tra il 1147 e il 1150, sul monte di San Ruperto vicino a Bingen, sul Reno, Ildegarda fonda il primo
monastero e, nel 1165, il secondo, sulla sponda opposta del fiume.
È una persona delicata e soggetta alle malattie, tuttavia, raggiunge l'età di 81 anni affrontando una vita piena di lavoro, lotte e contrasti spirituali, temprata da incarichi divini.
Figura, intellettualmente lungimirante e spiritualmente forte, le sue visioni, trascritte in appunti e poi in libri organici, la rendono celebre.
È interpellata per consigli e aiuto da personalità del tempo.
Sono documentati i suoi contatti con Federico Barbarossa, Filippo d'Alsazia, san Bernardo, Eugenio III. Negli anni della maturità intraprende numerosi viaggi per visitare monasteri, che avevano chiesto il suo intervento e per predicare nelle piazze, come a Treviri, Metz e Colonia.
Muore il 17 settembre 1179. (Avvenire)

Etimologia: Ildegarda = coraggiosa in battaglia, dal tedesco
Martirologio Romano: Nel monastero di Rupertsberg vicino a Bingen nell’Assia, in Germania, Santa Ildegarda, vergine, che, esperta di scienze naturali, medicina e di musica, espose e descrisse piamente in alcuni libri le mistiche contemplazioni, di cui aveva avuto esperienza.
Certi vescovi tedeschi non la sopportano.
Ildegarda, decima figlia dei nobili Vermessheim, con la voce e con gli scritti s’immischia in problemi come la riforma della Chiesa e la moralità del clero.
E poi ne discute pure con maestri di teologia. Ma sono cose da monaca? La sua risposta è sì. Sono cose da donna e da monaca.

Nel monastero di Disinbodenberg i suoi l’hanno portata all’età di 8 anni, come scolara.
Poi è rimasta lì, prendendo i voti con la guida della grande badessa Jutta di Spanheim; e nel 1136 l’hanno chiamata a succederle.
Dal suo primo monastero ha poi diretto la fondazione di altri due nell’Assia-Palatinato; quello di Bingen (dove lei si trasferisce nel 1147) e quello vicino di Eibingen, fondato nel 1165.
Questa è l’Ildegarda organizzatrice.
Poi viene l’Ildegarda ispirata, la mistica, quella di tutte le sorprese.
Ha visioni, riceve messaggi e li diffonde con gli scritti. Dopo le prime esperienze mistiche, ne ha scritto a Bernardo di Chiaravalle, e non poteva trovare miglior consigliere.
Bernardo non s’inalbera, come quei vescovi tedeschi, di fronte a una donna che discorre del cielo e della terra.
Anzi, la capisce e le fa coraggio, aiutandola pure a non perdere la testa: le vicende soprannaturali non dispensano dal realismo e dall’umiltà.
ldegarda diffonde racconti delle sue visioni; e, in forma di visione, tratta argomenti di teologia, di dogmatica e di morale, aiutata da una piccola “redazione”.
Esaltando le “opere di Dio”, include tra esse le piante, i frutti, le erbe: e la sua lode si traduce in un piccolo trattato di botanica.
Ma soprattutto Ildegarda insegna a esprimere l’amore a Dio attraverso il canto.
Con ogni probabilità è la prima donna musicista della storia cristiana. Suoi i versi, sua la melodia, prime esecutrici le monache di Bingen; poi quelle di Eibingen, e di tanti altri monasteri benedettini.
Ma non stiamo raccontando qui una storia antica: la musica di Ildegarda, dopo novecento anni, si fa nuovamente sentire ai tempi nostri, ripresa e divulgata dall’industria discografica.
Ildegarda vive e lavora fino alla sua età più tarda, sognando una Chiesa formata tutta di "corpi brillanti di purezza e anime di fuoco", come le sono apparsi in una visione; e liberata dall’inquinamento di altri cristiani che le sono pure apparsi: "corpi ripugnanti e anime infette".
Tra i grandi artefici di purificazione nel mondo cristiano, bisogna mettere in primo piano anche questa donna appassionata.
Dopo la morte si era avviato un processo di canonizzazione, che però è stato interrotto.
Ma il culto è continuato.
Ancora nel 1921 è nata in Germania la congregazione delle Suore di Santa Ildegarda.

(Autore: Domenico Agasso – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
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*San Lamberto di Maastricht - Vescovo e Martire (17 Settembre)

633/638 – 17 settembre 705 circa
Martirologio Romano: A Liegi in Austrasia, nell’odierno Belgio, passione di san Lamberto, vescovo di Maastricht e martire, che, mandato in esilio, si ritirò nel monastero di Stavelot; riavuta poi la sede, svolse degnamente il suo ministero pastorale, prima di divenire innocente vittima di uomini a lui ostili.
San Landeberto, il cui nome successivamente fu mutato in Lamberto, nacque tra il 633 ed il 638 da
una nobile e ricca famiglia di Maastricht, nella diocesi belga di Liegi. Nonostante il paganesimo imperasse ancora nella zona, la sua famiglia era cristiana ed egli ricevette la sua istruzione a corte dal vescovo San Teodardo.
Intraprese poi la carriera ecclesiastica e divenne sacerdote.
Un suo biografo descrisse così tale periodo della sua vita: “Un giovane prudente e di bell’aspetto, cortese e con un bel modo di parlare e di comportarsi; di buona costituzione, forte un buon lottatore, dalla mente chiara, affezzionato, puro e umile, e appassionato di lettura”.
Quando Teodardo fu assassinato verso il 670, Lamberto gli succedette sulla cattedra episcopale di Tongres-Maastricht.
Dopo cinque anni fu coinvolto nel tumulto politico seguito alla morte di Childerico II di Neustria e Borgogna.
Lamberto fu allora esiliato dalla sua sede da Ebroino, precedente sindaco del palazzo di Neustria.
Il re San Dagoberto II d’Austrasia, che lo ospitò inizialmente, chiese ai monaci di Stavelot-Màlmedy di accoglierlo provvisoriamente per assicurare la sua sicurezza e lo sostituì alla sede episcpale di Liegi con un certo Paramondo.
Fu così che per ben sette anni Lamberto visse da semplice monaco, contraddistinguendosi per la sua umiltà e la sua laboriosità.
Nel 680 fu assassinato Ebroino e gli succedette Pipino di Héristal. Questi, al fine di consolidare la sua precaria posizione, immediatamente reintegrò tutti gli ecclesiastici nelle loro legittime sedi ed anche Lamberto poté dunque fare ritorno a Maastricht, pieno di zelo ed energia.
Oltre ad espletare i suoi doveri di vescovo nei confronti del gregge affidato alle sue cure pastorali, intraprese un’opera di conversione dei pagani ancora presenti nel Campine e nel Brabante. Con la collaborazione di Santa Landrada fondò un monastero femminile presso Munsterblizen.
Le numerose leggende sorte sul suo conto tramandano due possibili versioni sulle vicende che portarono al martirio del santo vescovo. Secondo quella più tarda, risalente al IX secolo, sarebbe
stato ucciso nella chiesa dei Santi Cosma e Damiano in Liegi in vendetta per le sue interferenze nella adulterina relazione tra Pipino e sua cognata Alpais, sorella della moglie Santa Plectrude.
I primi biografi di Lamberto sostenevano invece che l’omicidio fosse stato causato da questioni economiche, riguardanti la tassazione della chiesa di Maastricht dedicata alla Madonna.
Il Vescovo, seppur rinchiuso a chiave nella propria camera, fu raggiunto da una freccia lanciatagli da una finestra e morì: era il 17 settembre di un anno imprecisato non oltre il 705.
La morte violenta, unita alla santità della sua vita, spinse immediatamente il popolo a venerare San Lamberto quale martire ed il suo corpo fu poi traslato nella casa dove era deceduto, trasformata appositamente in chiesa.
Attorno ad essa crebbe la città di Liegi, ove venne anche trasferita la sede episcopale e San Lamberto è ancora oggi venerato come patrono. Il culto del santo si espanse ele vicine regioni francesi e tedesche.
A livello popolare San Lamberto fu invocato contro le malattie degli animali domestici, nonchè contro l’ernia, i calcoli biliari e l’epilessia. E’ infine patrono dei gallinacei.

(Autore: Fabio Arduino - Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Lamberto di Maastricht, pregate per noi.

*Beata Leonella (Rosa) Sgorbati - Vergine e Martire (17 Settembre)

Gazzola, Piacenza, 9 dicembre 1940 – Mogadiscio, Somalia, 17 settembre 2006
Rosa Sgorbati nacque a Gazzola, vicino Piacenza, il 9 dicembre 1940. A dieci anni si trasferì con la famiglia a Sesto San Giovanni, in provincia di Milano. Allieva delle Suore Preziosine di Monza, sentì di essere chiamata da Dio a diventare religiosa e missionaria.
Tuttavia, dovette attendere il compimento dei vent’anni per entrare tra le suore Missionarie della Consolata. Professò i voti tre anni dopo, assumendo il nome di suor Leonella; poi partì per il Kenya, dove operò soprattutto come ostetrica.
Nel 2001 fu trasferita in Somalia, segnata dalla guerra civile. A Mogadiscio fondò un centro per la preparazione di infermieri e ostetriche somali. Il 17 settembre 2006, verso mezzogiorno, suor Leonella tornava a casa dopo le lezioni in ospedale. Sette colpi di arma da fuoco la raggiunsero, ferendola gravemente; per difenderla morì Mohamed Mahmud, l’uomo musulmano che le faceva da accompagnatore. Fu portata in ospedale e spirò dicendo: «Perdono, perdono, perdono».
È stata beatificata il 26 maggio 2018, nella cattedrale di Piacenza, sotto il pontificato di papa Francesco. La sua memoria liturgica è stata fissata al 17 settembre, giorno esatto della sua nascita al Cielo. I suoi resti mortali sono venerati presso la cappella del Flora Hostel di Nairobi.
Il perdono è come il coraggio: se non ce l’hai dentro non lo puoi improvvisare. Perché a perdonare, come a superare le paure, si impara giorno per giorno.
Ne sa qualcosa suor Leonella Sgorbati, che, proprio per aver esercitato un perdono eroico, è stata beatificata il 26 maggio 2018.
Nasce a Gazzola, nel piacentino, nel 1940 e a 16 anni confida a mamma di voler andare missionaria. «Ne riparleremo quando avrai 20 anni», commenta mamma; ma la ragazza non cambia idea. Entrata nelle Missionarie della Consolata, fa il noviziato a Sanfrè (in provincia di Cuneo), poi va in Inghilterra a studiare da infermiera e solo nel 1970 realizza il suo sogno volando in Kenya.
Come ostetrica sembra abbia fatto nascere 4000 bambini; ma questi continuano a nascere nel suo nome anche ora che lei non c‘è più, perché ha trovato il tempo di far nascere molte scuole per infermiere ed ostetriche.
«Dovremmo avere per voto di servire la Missione anche a costo della vita. Dovremmo essere contente di morire sulla breccia...», diceva il fondatore dei Missionari e delle Missionarie della Consolata, il beato Giuseppe Allamano. Lei, che lo ama molto e che ne studia la spiritualità per
incarnarla nella propria vita, scrive: «Io spero che un giorno il Signore nella sua bontà mi aiuterà a darGli tutto o... se lo prenderà... Perché Lui sa che questo io realmente voglio».
Questo suo “dare tutto” passa attraverso il suo “amare tanto”, si concretizza nell’ “amare tutti” e si traduce nel “perdonare sempre”, anche attraverso le fragilità di ogni giorno. Lo testimonia oggi una consorella tanzaniana, da lei educata al perdono nel momento tragico della morte violenta del proprio fratello: «Sei tu che devi cominciare a fare questo gesto di perdono, non aspettare che tuo fratello si scusi», le dice, facendo chiaramente intendere che in questo si sta esercitando, lei per prima, da tanto tempo.
A casa sua e in tutte le missioni in cui passa, sono pronti a giurare che il suo biglietto da visita è il sorriso. Se le chiedono: «Perché sorridi anche a chi non conosci?», invariabilmente risponde: «Perché così chi mi guarda sorriderà a sua volta. E sarà un po’ più felice».
Dal 2001 inizia a fare la “pendolare” tra il Kenya e la Somalia dove la sua presenza è stata richiesta dai Superiori, per iniziare anche qui una scuola per infermieri.
Trova un paese dilaniato da 10 anni di guerra civile, segnato da anarchia, carestia, morti senza numero, campi profughi, banditismo ed in cui, di conseguenza, si è radicato un fondamentalismo religioso che considera i missionari cattolici, specie se bianchi, obiettivo privilegiato.
Suor Leonella sa che per lei e le consorelle è pericoloso anche solo attraversare la strada, e ne ha paura, com’è normale: «C’è una pallottola con scritto sopra il mio nome e solo Dio sa quando arriverà», ma con la forza della fede aggiunge sempre: «La mia vita l’ho donata al Signore e Lui può fare di me ciò che vuole». Il vescovo di Gibuti è solito dire che il cuore di suor Leonella è più grande del suo fisico, pur imponente e “rotondetto”.
E proprio questo grande cuore viene spaccato il 17 settembre 2006 da una pallottola, sparata a distanza ravvicinata, da due uomini che l’attendono mentre rientra a casa dall’ospedale, che si trova dirimpetto. Tra lei e le pallottole omicide cerca di frapporsi Mohamed Mahmud, un musulmano, padre di quattro figli, che la sta scortando in quel brevissimo tragitto. Anch’egli viene ucciso e il sangue del musulmano si mescola in un’unica pozza con quello della missionaria cattolica.
«Cristiani e musulmani che cercano di condividere la vita devono mettere in conto la possibilità di unire il proprio sangue nel martirio», scrivono in quei giorni. Difatti, non si tratta di una semplice coincidenza: «Per me la morte di una italiana e di un somalo, di una cristiana e di un musulmano, di una donna e di un uomo, ci dice che è possibile vivere insieme, visto che è possibile morire insieme! Per questo il martirio di suor Leonella è un segno di speranza», dice il vescovo.
All’ospedale fanno di tutto per salvarla, i somali vanno a gara per donarle il loro sangue, esattamente come lei aveva fatto per loro, puntualmente, ogni tre mesi, come donatrice di sangue. Prima che si spenga come una candela, la consorella che le tiene la mano la sente sussurrare distintamente: «Perdono, perdono, perdono». Sono le sue ultime parole, la sua firma sopra il proprio martirio. Ora «Il cielo è senza stelle» dicono i somali quando sanno della sua morte; per noi, invece, c’è una stella in più nella costellazione dei martiri ufficialmente riconosciuti.

(Autore: Gianpiero Pettiti)
Nascita e famiglia
Nacque alle 5 del mattino del 9 dicembre 1940 a Rezza¬nello di Gazzola, in provincia e diocesi di Piacenza. Era l’ultima dei tre figli di Carlo Sgorbati, contadino, e Giovannina Vigilini detta Teresa, casalinga. Fu battezzata lo stesso giorno della nascita nella parrocchia di San Savino a Rezzanello: le vennero imposti i nomi di Rosa Maria, ma all’anagrafe civile aveva il solo nome di Rosa.
Nella sua numerosa famiglia, composta da ventuno persone compresi i vari parenti, Rosetta, come la chiamavano tutti, ebbe esempi di fede, soprattutto dalla madre: lei, dopo il lavoro nei campi, si fermava spesso in chiesa per portare fiori alla Madonna o per una visita al Santissimo Sacramento. Il padre, poi, le aveva insegnato a pregare tenendola tra le sue braccia.
Serena, a volte irrequieta, incline alla carità
Era una bambina serena, anche se ogni tanto si mostrava irrequieta, tanto che sua madre, un giorno, si trovò a esclamare: «Chissà quando sarà grande quanto mi farà tribolare!». Nei giochi con i compagni mostrava un’attitudine al comando, ma non in maniera superba. Frequentò l’asilo infantile e le scuole elementari presso le suore Orsoline di Maria Immacolata, che avevano aperto una loro casa nell’antico castello di Rezzanello.
Non è stato possibile risalire alla data della Prima Comunione di Rosetta: verosimilmente, secondo l’uso dell’epoca, l’ha ricevuta tra i dieci e gli undici anni. Si preparò invece alla Cresima nella scuola delle Orsoline di Maria Immacolata: il sacramento le fu amministrato il 26 maggio 1947 nella chiesa parrocchiale di Santa Maria Assunta di Aguzzano, da monsignor Ersilio Menzani, vescovo di Piacenza. Rosetta aveva anche imparato a stare attenta ai bisogni del prossimo. Quando aveva il permesso di andare con la mamma al mercato a Gazzola, visitava una donna, Marietta, e i suoi figli. Vedendo che soffriva il freddo, decise di comprare una sciarpa per lei, tenendo da parte i soldi che le davano i genitori per le sue piccole spese.
Il trasloco a Sesto San Giovanni
Per garantire un miglioramento economico alla famiglia, suo padre decise di avviare una rivendita all’ingrosso di frutta e verdura a Sesto San Giovanni, in provincia e diocesi di Milano. Tutta la famiglia lo seguì il 9 ottobre 1950.
Rosetta soffrì molto per il distacco dai luoghi dov’era cresciuta. Anzi, tentò la fuga nascondendosi su un camion, ma la lontananza dalla famiglia durò un anno. Nel nuovo ambiente non si trovava a suo agio, anche perché qualcuno la rimproverava dicendole: «Sei tutta da rifare!». La sofferenza si fece più forte il 16 luglio 1951, giorno in cui, a 61 anni, morì suo padre Carlo.
In collegio, la scoperta del Vangelo
Poco tempo dopo, Rosetta venne a sapere che avrebbe frequentato le scuole medie in collegio. Le venne spontaneo domandarsi: «Sono così malvagia senza nemmeno saperlo?». Venne quindi inserita nel collegio delle Suore del Preziosissimo Sangue di Monza, dette Preziosine, nella stessa città di Monza.
Anche la vita in collegio le risultava pesante. Tuttavia, una delle religiose, suor Adriana Sala, un giorno le si avvicinò e le porse un piccolo libro: era il Vangelo. Da allora, Rosetta cominciò a leggere e meditare spesso la Parola di Dio e a trascorrere molto tempo nella cappella del collegio.
«Abitata» da Dio: la vocazione
Nell’aprile 1952, proprio mentre pregava in cappella, Rosetta ebbe un’esperienza speciale. In seguito, nel suo Diario, la raccontò così: «… mi sono sentita ABITATA in quel lontano giorno… e tu mi hai tenuta in te, mio Signore, oppure sei rimasto tu in me…. Mai più sola…ABITATA…». La decisione fu netta: «Sarei andata Suora».
Terminati gli studi col conseguimento del diploma commerciale, Rosetta tornò a casa. I suoi parenti si stupirono del cambiamento che era passato in lei e, ancora di più, si meravigliarono quando manifestò la sua vocazione. La madre, perciò, le impose di attendere quando avrebbe compiuto vent’anni.
Partecipando alla vita della parrocchia di San Giuseppe a Sesto San Giovanni e frequentando l’oratorio, Rosetta tentò di superare quella momentanea delusione.
S’iscrisse anche all’Azione Cattolica e iniziò a visitare i malati tutti i mercoledì. Riuscì poi a farsi delle amiche: Giuseppina, la migliore, la sostenne anche nella lotta per la vocazione, che intanto aveva preso un indirizzo preciso, quello missionario.
Tra le Missionarie della Consolata, diventa suor Leonella
In oratorio aveva infatti sentito parlare delle Missionarie della Consolata, congregazione femminile fondata dal canonico Giuseppe Allamano (beatificato nel 1990) dopo l’omonima congregazione maschile. Così, arrivata a vent’anni, si ripresentò alla madre e dichiarò: «Adesso ho vent’anni e non ho cambiato idea».
Così, il 5 maggio 1963, Rosetta si presentò alla casa di Sanfré delle Missionarie della Consolata; quindici giorni dopo, iniziò il postulandato. Nei sei mesi successivi mostrò tutte le sue doti migliori: la disponibilità a ogni tipo di servizio, l’allegria con cui lo compiva e il sorriso che la rendeva familiare a tutte le consorelle. Nel novembre 1963, finito il postulandato, celebrò la vestizione religiosa: ricevendo l’abito, Rosa cambiò nome in suor Leonella.
Iniziò il noviziato il 21 novembre 1963, nella casa generalizia di Nepi. Sotto la guida della maestra delle novizie, suor Paolina Emiliani, imparò a essere ancora più fedele al progetto missionario voluto dall’Allamano, attingendo dai suoi scritti e dalla testimonianza delle altre suore. Il 22 novembre 1965 emise la prima professione religiosa.
In Inghilterra per diventare infermiera
Suor Leonella fu quindi inviata in Inghilterra, allo scopo di frequentare la scuola per infermiere. L’impatto con la sofferenza fisica di tanti malati e con la morte la portò a confidarsi con la superiora generale: «O si crede in Dio e allora non si può fare altro che amarlo amarlo amarlo... o non si crede e allora esiste solo la disperazione! Sono estremista? Non lo so, ma non vedo altra strada all’infuori di queste due: o Dio o il buio del nulla...».
La scuola di Midwifery (Ostetricia) era distante cinquanta chilometri dalla casa delle Missionarie: di conseguenza, tornare per suor Leonella era sempre una gioia. Una sera si presentò alla ricreazione comunitaria indossando un paio di baffi di plastica: «Ogni suora li indosserà e inizierà a parlare; poi li passerà alla vicina di destra e via così fino a chiudere il cerchio». Quel sistema fu utile perché ogni suora riuscisse a parlare di sé alle altre; non oltrepassarono neanche i limiti orari della ricreazione.
Studiando come funzionava il corpo umano, riusciva a trovare il modo di coniugare la competenza medica e la fede: «Ma io credo, credo e ripeto al Signore la mia volontà di fede, il mio desiderio di luce, luce, luce! Madre come è bella la fede! Con la fede tutto è più facile!», scrisse ancora alla superiora generale.
Nel 1969 conseguì il diploma di State Enrolled Nurse (Infermiera di Stato) e nel 1970 concluse la prima parte del corso di Midwifery. Il 19 novembre 1972 emise i voti perpetui, consacrandosi per sempre all’apostolato missionario. In quell’occasione, annotò sul suo Diario: «O Signore, che la mia vita sia una risposta».
In Kenya
Già da due anni, però, suor Leonella era stata destinata alla missione in Kenya. Più precisamente, a Nkubu, nella regione del Meru, nel cui ospedale e nell’annessa scuola per infermiere erano in servizio le Missionarie della Consolata.
Suor Leonella era impegnata specialmente nel reparto maternità e seguiva un nutrito gruppo di allieve ostetriche. In seguito divenne direttrice della scuola per infermieri, ai quali insegnava non solo le competenze tecniche necessarie agli operatori sanitari, ma anche a diventare capaci di accogliere il malato con comprensione e amore.
Profondamente convinta della bellezza della vocazione missionaria, era attenta a cogliere i segni della possibile vocazione di qualche ragazza. Era capace di pregare per una settimana intera, pur di ottenere da Dio la consacrazione di colei sulla quale aveva posato lo sguardo.
Superiora regionale
Nel VII Capitolo Generale delle Missionarie della Consolata, svolto nel 1993, suor Leonella portò la sua ventennale esperienza, insieme alle istanze delle comunità del Kenya. Subito dopo, le consorelle la elessero superiora regionale.
Scrisse in una delle sue lettere circolari: «Noi, sia individualmente che come comunità dobbiamo renderci disponibili al processo dell’Incarnazione del Figlio in noi per poter essere la Consolazione del Padre. Cosa significa questo, in pratica? Significa accogliere che il Figlio sia libero in ciascuna di noi, in me, libero di perdonare attraverso la mia persona a chi mi reca offesa, libero di spezzare il pane della bontà, della comprensione nella mia comunità, libero di farmi percorrere l’itinerario che il Padre ha fatto fare a Lui, con le scelte che il Padre indica. Libero di farmi percorrere il cammino della pazienza, della mansuetudine, dell’umiltà che passa attraverso l’umiliazione … Libero di poter dire attraverso di me - lo Spirito del Signore è su di me … mi ha consacrato e mi manda a portare la buona notizia ai poveri, la libertà ai prigionieri … ad annunciare l’anno della consolazione, a ricostruire le antiche rovine…  Libero di amare attraverso di me con l’Amore più grande, l’Amore che va fino alla fine, che è più forte dell’odio e dell’inferno … nella verità, nella pratica di ogni giorno e di ogni momento».
«Solo per Dio»
Terminato il mandato, suor Leonella entrò a far parte dell’equipe dei sabbatici, ossia di occuparsi delle Missionarie che avevano bisogno di qualche tempo di riposo. Dal 2000 al 2005 riservò le sue attenzioni alle consorelle di passaggio, prestandosi per tanti servizi anche minimi.
Il suo carattere aveva perso le asperità di un tempo: da testarda anche di fronte a difficoltà insormontabili, si era fatta più umile e paziente. Aveva un solo cruccio: «Vorrei poter dire che quel poco che ho fatto, l’ho fatto solo per Dio».

In Somalia
Nel novembre 2001, suor Leonella fu destinata alla piccola comunità che le Missionarie della Consolata avevano in Somalia.
Avrebbe dovuto fondare una scuola per infermieri a Mogadiscio, come quella di cui si era occupata in Kenya, in collaborazione con la onlus SOS Villaggi dei Bambini.
Il compito non era facile: anzitutto, doveva dimostrare che le nozioni scientifiche da lei impartite non andavano contro i principi del Corano.
In seconda battuta, doveva mettere in chiaro che non intendeva obbligare gli allievi a convertirsi, non facendo quindi opera di proselitismo.
La piccola comunità non aveva un cappellano, neanche saltuario, anzi, era l’unica presenza cristiana
sul luogo. La presenza di Gesù nell’Eucaristia era comunque assicurata, sebbene le suore la conservassero in un mobile nascosto in un angolo del corridoio della loro casa: era l’unico Tabernacolo in tutta la Somalia.
Una sosta alla luce dell’Eucaristia
Nel 2006, suor Leonella tornò in Italia per un breve periodo. Si trattava del cosiddetto Mese Allamaniano, un percorso di preghiera e riflessione personale per le singole Missionarie, centrato sulla meditazione della Parola di Dio e degli scritti del fondatore. Presenta anche tempi più distesi per la contemplazione e per l’adorazione dell’Eucaristia.
Suor Leonella ha lasciato traccia, nel suo Diario, di quanto il Signore aveva da dirle per quel preciso momento della sua vita. Meditando sul capitolo 6 del Vangelo di Giovanni, annotava con stupore: «Se il mio corpo e il Suo sono una cosa sola, se il Suo sangue e il mio sono una cosa sola, allora è possibile essere sempre in Lui dono d’amore, dono di Lui, per tutti. Sempre, in ogni momento! Allora è possibile testimoniare, sempre che Lui c’è e ci ama».
In occasione di una visita al Santuario della Consolata, che l’Allamano aveva contribuito a restaurare e arricchire, si affidò completamente alla Madonna. Si sentiva chiamata, come suggeriva il brano di Vangelo del giorno, a morire per dare frutto.

Il rischio del martirio
Nel periodo in cui fu superiora regionale, suor Leonella rimase molto colpita dalla storia dei sette monaci trappisti uccisi in Algeria, a Tibhirine, nel 1996: consegnò una copia del primo libro uscito su di loro ad ogni comunità della regione. «Mi ritorna in mente la frase di “Più forti dell’odio”», scrisse, «“il martirio non può essere visto come una impresa eroica, come un gesto di persone valorose, ma come il naturale evolversi di una vita donata”».
Il rischio in Somalia era palese, tanto più che continuavano le minacce contro le suore e il loro operato nell’ospedale, specie sulla stampa locale. Riferendosi allo scampato pericolo di una consorella, suor Marzia Feurra, che l’aveva lasciata molto scossa, suor Leonella cercò di sdrammatizzare: «Chissà se un giorno non ci sarà una pallottolina anche per me da parte dei miei amici fondamentalisti», aggiungendo però: «Sono nelle mani di Dio disposta a tutto».

I sospetti degli integralisti
Il giorno della consegna dei diplomi ai neo-infermieri, dieci ragazzi e dieci ragazze, suor Leonella preparò una grande festa. Per rendere ancora più solenne l’occasione, fece loro indossare la toga tipica dei neolaureati. Quell’evento, trasmesso anche in televisione, condusse gli integralisti a pensare che la suora avesse convertito i giovani, facendoli già vestire da preti.
Circa un mese dopo, suor Leonella si accorse che un uomo sospetto si aggirava nei pressi della scuola: lui la fissò, ma non le disse nulla. Il 12 settembre 2006, poi, papa Benedetto XVI aveva citato in un discorso, a Ratisbona, una frase dell’imperatore Manuele II Paleologo, particolarmente feroce contro l’Islam. Quell’espressione aveva suscitato reazioni molto violente in tutto il mondo musulmano. A quella notizia, suor Leonella invitò le altre suore a pregare e a offrire molto per il Papa e per la Chiesa.

La morte
Domenica 17 settembre 2006 era un giorno lavorativo. Alle 12.30 suor Leonella, uscita dalla scuola infermieri, fu affiancata da Mohamed Mahamud, la sua guardia del corpo (le suore erano accompagnate anche solo per tragitti brevissimi) e fece per attraversare la strada che separava la scuola dal Villaggio SOS, dove abitava.
Dopo pochi passi, si sentì uno sparo: la suora cadde a terra. Cercò di rialzarsi, ma altri proiettili l’abbatterono definitivamente. Alcune persone accorsero per portarla in ospedale. Al vedere che cercavano d’inseguire l’aggressore, la religiosa li fermò: «Lasciatelo andare, è un poveretto». Anche la sua guardia del corpo fu ferita mortalmente.
Suor Marzia e un’altra suora, Gianna Irene Peano, avevano sentito gli spari e si erano subito preoccupate. Appena seppero che suor Leonella era ferita, corsero da lei in ospedale. Gli studenti fecero a gara per donarle il proprio sangue, mentre i medici cercavano in ogni modo di curarla.
Secondo la testimonianza di suor Gianna Irene, il suo volto era in pace, ma era come se lei volesse dire ancora qualcosa. Con tutto il fiato che le restava, mormorò: «Perdono, perdono, perdono».  Quando il chirurgo arrivò, poté solo costatare il suo decesso: erano le 13.45. Suor Leonella aveva sessantasei anni, trentasei dei quali vissuti per la missione in Africa.
Il cadavere di suor Leonella fu portato a Nairobi, dove, il 21 settembre, si svolsero i suoi funerali. Erano presenti le autorità civili, i Missionari e le Missionarie della Consolata e gli allievi della scuola infermieri, attorniati da una folla considerevole.
Nell’omelia, monsignor Giorgio Bertin, attuale vescovo di Gibuti, dichiarò: «Lei era convinta che una nuova Somalia, guarita dal flagello della guerra civile è possibile. […] La sua vita, il suo sorriso e la sua innocenza ci dicono che un mondo nuovo è possibile, una nuova Somalia è possibile. Lei fu ispirata dalla convinzione che il nuovo mondo che Gesù è venuto ad annunciare è già cominciato qui sulla Terra. E non è una coincidenza che morì insieme a un uomo musulmano. […] Vivere insieme, nonostante le differenze, richiede la conversione del cuore, speranza, determinazione e perseveranza».

Fama di martirio e avvio della causa
All’Angelus di domenica 24 settembre, papa Benedetto XVI ricordò suor Leonella con queste parole: «Questa Suora, che serviva i poveri e i piccoli in Somalia, è morta pronunciando la parola “Perdono”: ecco la più autentica testimonianza cristiana, segno pacifico di contraddizione che dimostra la vittoria dell’amore sull’odio e sul male».
A fronte delle numerose attestazioni che confermavano la fama di martirio di suor Leonella, nel 2011 il Capitolo Generale delle Missionarie della Consolata ha chiesto al Governo Generale degli istituti missionari fondati dall’Allamano di poter iniziare le fasi preliminari per la causa di beatificazione e canonizzazione.
Il 25 settembre 2012, nella cappella della casa di Nepi, monsignor Bertin ha accolto il Supplice Libello, ossia il documento con cui si richiedeva l’avvio formale della causa. Dal settembre 2012 al settembre 2013 è stato preparato il necessario per costituire il Tribunale Ecclesiastico in vista del processo diocesano.

La causa di beatificazione
La Santa Sede ha rilasciato il nulla osta per l’avvio della causa nel 2013. Il processo diocesano è quindi iniziato a Gibuti, sede della diocesi di Gibuti e Mogadiscio, il 31 agosto 2013; si è concluso il 15 gennaio 2014. Gli atti del processo sono stati convalidati il 19 settembre 2014.
La “Positio super martyrio”, consegnata il 7 aprile 2016, è stata esaminata dai consultori teologi e dai cardinali e dai vescovi membri della Congregazione delle Cause dei Santi, rispettivamente il 6
aprile 2017 e il 17 ottobre dello stesso anno.
Intanto, il 30 settembre 2017, i resti mortali di suor Leonella, sepolti presso il cimitero di Nairobi in Kenya, sono stati sottoposti alla ricognizione canonica. Nel dicembre successivo sono stati collocati nella cappella del Flora Hostel di Nairobi.
L’8 novembre 2017, ricevendo in udienza il cardinal Angelo Amato, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto con cui suor Leonella veniva ufficialmente riconosciuta come martire. La sua beatificazione è stata celebrata il 26 maggio 2018, nella cattedrale di Piacenza. A presiedere il rito, come inviato del Santo Padre, il cardinal Amato.
La sua memoria liturgica è stata fissata al 17 settembre, giorno esatto della sua nascita al Cielo, per le diocesi di Nairobi (dov’è morta) e Piacenza (dov’è nata), oltre che per gli Istituti dei Missionari della Consolata e delle Suore Missionarie della Consolata.

(Autore: Emilia Flocchini - Fonte: Enciclopedia dei Santi)

Giaculatoria - Beata Leonella Sgorbati, pregate per noi.

*San Pietro di Arbues (Pedro Arbués) - Martire (17 Settembre)

Saragozza, 1441/2 – Saragozza, 17 settembre 1485

Martirologio Romano: A Saragozza nell’Aragona in Spagna, San Pietro de Arbués, sacerdote e martire: canonico regolare dell’Ordine di Sant’Agostino, lottò nel regno di Aragona contro le superstizioni e le eresie e morì percosso da alcuni inquisiti davanti all’altare della cattedrale.
Nacque in una data imprecisata tra il 1441 ed il 1442.
Suo padre, di nobile stirpe, si chiamava Antonio Arbues e sua madre Sancia Ruiz. Studiò filosofia probabilmente a Huesca. Completò, quindi, i suoi studi presso il collegio spagnolo di San Clemente all’Università di Bologna.
Qui, dunque, si laureò in teologia ed in diritto.
Ritornato in Spagna, entrò tra i canonici regolari di Sant'Agostino in Saragozza, emettendo la sua professione religiosa nel 1474.
In quel periodo, i sovrani cattolicissimi Ferdinando II d’Aragona ed Isabella di Castiglia avevano ottenuto da papa Sisto IV, il 1° novembre 1478, una bolla diretta ad istituire l'Inquisizione in
Castiglia e ad autorizzare i Re Cattolici a nominare nei loro Stati alcuni inquisitori di fiducia con giurisdizione esclusivamente sui cristiani battezzati.
I compiti del tribunale, quindi, erano diretti a ricercare gli eretici ed in particolare gli ebrei che, dopo aver ricevuto il battesimo, erano ritornati pubblicamente o segretamente alla loro fede giudaica (i c.d. marranos). Nessun ebreo, in quanto tale, quindi, poteva essere condannato o sottoposto a giudizio da parte dell’Inquisizione.
Il famoso domenicano Tommaso de Torquemada, nel 1483, fu nominato Inquisitore Generale della Castiglia. Sulla persona di questo frate una certa storiografia ostile alla Chiesa ha costruito un’autentica leggenda nera, diffondendo numerose menzogne. Egli era confessore della Regina Isabella e fu uomo di costumi integerrimi, mite e liberale, nonché uno dei maggiori mecenati e protettori di artisti della sua epoca. Si impegnò anche, come Inquisitore, per ottenere ampie amnistie, come quella del 1484.
Torquemada, informato della dottrina e delle virtù di Pietro, lo chiamò accanto a sé elevandolo al rango di inquisitore provinciale del Regno di Aragona. Era il 1484.
Pietro svolse il compito affidatogli con zelo e con giustizia. Anche se i nemici dell’Inquisizione ed i detrattori della Chiesa lo accusarono di crudeltà, tuttavia è certo storicamente che egli non pronunciò mai alcuna sentenza di morte, facendo prevalere la misericordia e la pietà.
I marranos, però, che egli aveva punito e stigmatizzato, lo odiavano e decisero, quindi, di eliminarlo. Una notte, mentre il buon Pietro era inginocchiato in preghiera dinanzi all’altare della Vergine
Maria nella Chiesa metropolitana di Saragozza, dove era solito recitare l’ufficio divino con i suoi confratelli, fu aggredito da alcuni sicari e ferito mortalmente. La sua agonia durò due giorni. Finalmente, quindi, poté rendere l’anima a Dio, raggiungendo il premio dei giusti.
Era il 17 settembre 1485. All’omicidio fece seguito un clamoroso processo che si concluse con l’emanazione di pene assai severe. Non fu possibile subito proclamare la santità di Pietro a causa della forte influenza dei marranos nella corte spagnola. Basti pensare che il cancelliere dell’intendenza del re Ferdinando, Luis de Santangel, era nipote di una persona coinvolta nell’omicidio.
Il 17 aprile 1668, il Papa Alessandro VII permise la venerazione e la festa liturgica di Pietro in Saragozza e nei luoghi dove operava l’Inquisizione generale e quella provinciale aragonese.
Fu canonizzato soltanto da Pio IX il 29 giugno 1867.
(Autore: Francesco Patruno - Fonte: Enciclopedia dei Santi)

Giaculatoria - San Pietro di Arbues, pregate per noi.

*San Reginaldo - Eremita (17 Settembre)

Piccardia (Francia) - † Mélinais, 17 settembre 1104
Etimologia: Reginaldo = che regna con intelligenza, dal tedesco
Martirologio Romano: A Mélinais nel territorio di Angers in Francia, San Reginaldo, eremita, che si ritirò nella selva di Craon per adempiere più pienamente ai precetti del Signore.
Francese della Piccardia dell’XI secolo, Rainaud (Reginaldo) entrò ancora giovane nel convento dei Canonici Regolari di Saint-Jean-des-Vignes a Soissons. Mentre era in questo convento sentì parlare del gruppo di eremiti, che si erano riuniti nella foresta di Craon, sotto la guida del beato Roberto d’Abrissel (†1116), e decise di raggiungerli.
Ma i Canonici contrari, chiesero l’aiuto di Sant'Ivo di Chartres, il quale scrisse una lettera a Reginaldo illustrando i vantaggi della vita cenobitica e cercando di convincerlo a non abbandonare la Comunità.
A questa lettera Reginaldo rispose con un opuscolo ‘De vita monachorum’ che è una bella satira della vita del chiostro; quindi non convinto da Ivo lasciò i Canonici, per la foresta di Craon.
In seguito quando il Beato Roberto d’Abrissel partì per fondare il celebre monastero di Fontevrault, Reginaldo si spostò nella foresta di Mélinais presso La Flèche nella diocesi di Angers, dove costruì una piccola cappella dedicata a San Giovanni Evangelista, riunendo intorno a sé alcuni discepoli.
Dopo vari anni di vita penitenziale ed eremitica, morì il 17 settembre 1104 e seppellito nella cappella che aveva costruito; nel 1182 Enrico II re d’Inghilterra e conte d’Angiò, fece costruire sul luogo della tomba una abbazia dei Canonici Regolari di Sant’Agostino.
Come accadeva spesso in quei tempi, le reliquie furono più volte trasferite e dopo il grande sconvolgimento della Rivoluzione Francese vennero traslate nella chiesa parrocchiale di Candé (Maine-et-Loire) dove sono venerate tuttora. La sua festa religiosa è fissata al 17 settembre.

(Autore: Antonio Borrelli - Fonte: Enciclopedia dei Santi)

Giaculatoria - San Reginaldo, pregate per noi.

*San Roberto Bellarmino - Vescovo e Dottore della Chiesa (17 Settembre)

Montepulciano, Siena, 1542 - Roma, 17 settembre 1621
Roberto Bellarmino nacque a Montepulciano nel 1542 da una ricca e numerosa famiglia. Nel 1560 entrò nella Compagnia di Gesù. Studiò a Padova e a Lovanio e al Collegio romano di Roma. In quegli anni tra i suoi alunni c'era anche San Luigi Gonzaga. Venne creato cardinale e arcivescovo di Capua nel 1599. Divenne un affermato teologo postridentino.
Scrisse molte opere esegetiche, pastorali e ascetiche; fondamentali per l'apologetica sono i voluminosi libri «De controversiis». Con un'opera semplice nella struttura ma ricca di sapienza come il suo «Catechismo» fu "maestro" di tante generazioni di fanciulli. Famoso anche un altro suo volume «L'arte del ben morire». Morì il 17 settembre 1621 a Roma. Nel 1930, ebbe da papa Pio XI la triplice glorificazione di beato, di santo e di dottore della Chiesa. (Avvenire)

Etimologia: Roberto = splendente di gloria, dal tedesco
Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: San Roberto Bellarmino, vescovo e dottore della Chiesa, della Compagnia di Gesù, che seppe brillantemente disputare nelle controversie teologiche del suo tempo con perizia e acume. Nominato cardinale, si dedicò con premura al ministero pastorale nella Chiesa di Capua e, infine, a Roma si adoperò molto in difesa della Sede Apostolica e della dottrina della fede.

L'infanzia e la giovinezza

Nacque terzo di dieci fratelli in una numerosa famiglia di origini nobili ma in via di impoverimento economico. Suo padre era Vincenzo Bellarmino e sua madre, Cinzia Cervini, molto pia e religiosa, era sorella del cardinale Marcello Cervini, che divenne papa Marcello II. Fu educato per desiderio della madre nel collegio gesuita della sua città natale, fondato da poco tempo; entrò all'età di diciotto anni nella Compagnia di Gesù, il 20 settembre 1560, ed ammesso alla prima professione religiosa il giorno dopo, nonostante il parere contrario del padre che preferiva per lui una carriera politica laica. Fin da giovanissimo mostrò le sue ottime doti letterarie ed ispirandosi agli autori latini come Virgilio compose diversi piccoli poemi sia in lingua volgare che in lingua latina. Uno dei suoi inni dedicato alla figura di Maria Maddalena fu inserito poi per l'uso nel breviario.
Dal 1560 al 1563 studiò nel Collegio Romano a Roma, futura Pontificia Università Gregoriana, sede della scuola gesuita. Iniziò successivamente a studiare materie umanistiche prima a Firenze e poi a Mondovì sempre in scuole del suo ordine religioso. Nel 1567 intraprese lo studio della teologia, dapprima a Padova e poi nel 1569 fu inviato a completare questi studi a Lovanio nelle Fiandre, dove poté acquisire una notevole conoscenza delle eresie più importanti del suo tempo.

L'opera come professore
Dopo l’ordinazione sacerdotale avvenuta la Domenica delle palme del 1570 a Gand in Belgio, guadagnò rapidamente notorietà sia come insegnante sia come predicatore; in quest’ultima veste era capace di attirare al suo pulpito sia cattolici che protestanti[1], persino da altre aree geografiche. Iniziato l'insegnamento di teologia nel 1570 a Lovanio, fu richiamato nel 1576 in Italia da Papa Gregorio XIII che gli affidò la cattedra di “Controversie” da poco istituita nel Collegio Romano, cioè di Apologetica, attività che svolse fino al 1587. Era da poco tempo terminato il Concilio di Trento e la Chiesa Cattolica, attaccata dalla Riforma protestante aveva necessità di analizzare e verificare la propria identità culturale e soprattutto spirituale. L'attività e le opere di Roberto Bellarmino si inserirono proprio in questo contesto storico.
Egli si dimostrò adeguato alla difficoltà del compito dell'insegnamento e le lezioni che egli tenne confluirono nella sua grande e più famosa opera di più volumi Le controversie. Questa monumentale opera teologica rappresenta il primo tentativo di sistematizzare le varie controversie teologiche dell’epoca, ed ebbe un’enorme risonanza in tutta Europa.
Presso le chiese protestanti in Germania ed in Inghilterra furono istituite specifiche cattedre d'insegnamento per fornire una replica agli argomenti difesi dal Bellarmino circa l'ortodossia cattolica e la sua aderenza alla Bibbia e alla storia della Chiesa.
L’opera completa non è stata ancora rimpiazzata come testo classico, anche se, come si può facilmente intuire, l’avanzamento degli studi critici ha diminuito il valore di alcuni suoi argomenti storici.

La missione in Francia e il contrasto con Sisto V
Nel 1588 fu nominato "Direttore Spirituale" del Collegio Romano. Ma poco dopo nel 1590, fu inviato con la legazione del cardinale Gaetano, in qualità di teologo, che papa Sisto V aveva inviato in Francia per difendere la Chiesa Cattolica nelle difficoltà scaturite dalla guerra civile tra cattolici ed ugonotti. Mentre si trovava in Francia fu raggiunto dalla notizia che Sisto V, che aveva calorosamente accettato la dedica della sua opera “Le controversie”, stava per proporre di metterne il primo volume all’Indice. Il motivo era che nell'opera si riconosceva alla Santa Sede un potere indiretto e non diretto sulle realtà temporali.
Bellarmino, la cui fedeltà alla Santa Sede era intensa e autentica, ne fu profondamente amareggiato. Tale imminente condanna fu evitata dall'improvvisa morte di Sisto V il 27 agosto 1590, per complicanze di una malattia infettiva, forse malaria. Il nuovo papa Gregorio XIV, fu invece pienamente entusiasta di quest'opera, tanto che concesse ad essa, persino l’onore di una speciale approvazione pontificia.

Il ritorno alla cattedra e la revisione della Vulgata
Quando la missione del cardinal Gaetano era oramai al termine, Bellarmino riprese nuovamente il suo lavoro come insegnante e padre spirituale. Ebbe la consolazione di guidare negli ultimi anni della sua vita san Luigi Gonzaga, che morì appena 23enne al Collegio Romano nel 1591 dopo aver contratto un male per salvare un uomo affetto da peste ed abbandonato per strada. Di lui negli anni successivi Bellarmino stesso promosse il processo di beatificazione.
In questo periodo egli fece parte della commissione finale per la revisione del testo della Vulgata. Questa revisione era stata oggetto di una specifica richiesta del concilio di Trento, per controbbattere le tesi protestanti e i papi posttridentini avevano operato per questo compito alacremente portandolo quasi a realizzazione completa. Sisto V per quanto non dotato di competenze specifiche in materia biblista, aveva introdotto delle modifiche al Sacro Testo in modo eccesivamente leggero e rapido, con vistosi errori. Per accelerare i tempi aveva comunque fatto stampare questa edizione e in parte la fece distribuire con il proposito di imporne l’uso con una sua bolla. Tuttavia morì prima della promulgazione ufficiale e i suoi immediati successori procedettero subito ad eliminare gli errori più vistosi e a togliere dalla circolazione l'edizione errata.
Il problema consisteva nell’introdurre un’edizione più corretta senza screditare il nome di Sisto V. Bellarmino propose che la nuova edizione dovesse portare sempre il nome di Sisto V, con una spiegazione introduttiva secondo la quale, a motivo di alcuni errori tipografici o di altro genere, già papa Sisto aveva deciso che una nuova edizione dovesse essere intrapresa.
La sua dichiarazione, dal momento che non c'era prova contraria, dovette essere considerata come risolutiva, tenendo conto di quanto serio e responsabile egli era stimato dai suoi contemporanei. Ancor più essa non poteva essere rifiutata senza macchiare la reputazione degli altri membri della commissione che accolsero il suggerimento, e quella di Clemente VIII che, pienamente consapevole della vicenda, diede il permesso che la prefazione del Bellarmino fosse premessa alla nuova edizione.
Angelo Rocca, il segretario della commissione deputata alla revisione, scrisse di suo pugno una bozza della prefazione in cui dichiarava: «[Sisto] quando iniziò a rendersi conto che c’erano errori tipografici ed altre opinioni scientifiche, cosicché si poteva, o meglio doveva, prendere una decisione sul problema, e pubblicare una nuova edizione della Volgata, siccome morì prima, non fu in grado di realizzare quanto aveva intrapreso. »
Questa bozza, alla quale quella del Bellarmino fu preferita, è tuttora esistente, allegata alla copia dell’edizione Sistina in cui sono segnate le correzioni della Clementina, e può essere consultata nella Biblioteca Angelica di Roma.

La nomina a cardinale
Nel 1592 Bellarmino divenne Rettore del Collegio Romano, funzione che svolse per circa due anni fino al 1594. Nel 1595 divenne Preposito della provincia di Napoli. Nel 1597 papa Clemente VIII lo richiamò a Roma e lo nominò suo consultore teologo, e inoltre "Esaminatore dei Vescovi e Consultore del Sant'Uffizio". Il 3 marzo 1599 il papa lo fece cardinale presbitero con il titolo di Santa Maria in Via, indicando la motivazione di questo incarico con le parole: La Chiesa di Dio non ha un soggetto di pari valore nell’ambito della scienza. Negli anni successivi Bellarmino fu definito bonariamente spesso come "il gesuita vestito di rosso", in relazione all'abito cardinalizio che contrastava con la tonaca nera dei gesuiti.
A questo periodo risale anche la nomina, con il cardinale Girolamo Berneri domenicano e vescovo di Ascoli e per questo chiamato Cardinal d'Ascoli, ad assistente del cardinale Madruzzi, presidente della Congregazione “De Auxiliis”, congregazione istituita poco tempo prima dal papa per ricomporre la controversia recentemente sorta tra Tomisti e Molinisti a proposito della natura dell’armonia tra grazia efficace e libertà umana. In tale diatriba che si trascinerà per diversi decenni si contrapponevano gesuiti molinisti e domenicani tomisti.
Il parere di Bellarmino sin dall’inizio fu che tale questione di natura dottrinale non dovesse essere risolta con un intervento autoritativo, ma lasciata ancora alla discussione tra i diversi indirizzi e che ai contendenti di entrambi i campi fosse seriamente proibito di indulgere a censure o condanne dei rispettivi avversari. La maggior parte dei teologi gesuiti di cui Bellarmino era parte erano più vicini alla tesi dei Molinisti e quindi questo suo non schierarsi poteva dar adito a ritenere più valida la tesi Tomista. Clemente VIII all’inizio era propenso ad accettare questa idea conciliante del Bellarmino, ma successivamente cambiò completamente posizione, deciso a dare una più precisa definizione dottrinale in favore della tesi tomista.
La presenza di Roberto Bellarmino in tal senso, era diventata imbarazzante, ed egli probabilmente anche per tale motivo lo nominò il 18 marzo 1602 arcivescovo di Capua, sede resasi proprio allora vacante. Clemente stesso volle consacrarlo con le sue mani, un onore che abitualmente i papi concedono come segno di stima speciale; il nuovo arcivescovo partì subito per la sua sede, e si distinse degnamente nel suo ministero.
Nel marzo 1605 Clemente VIII morì e gli succedette prima Leone XI che regnò per solo ventisei giorni, e poi Paolo V. Nel primo e nel secondo conclave, ma soprattutto in quest'ultimo, il nome di Roberto Bellarmino fu spesso dinanzi alle intenzioni degli elettori, specialmente a motivo delle afflizioni subite, ma il fatto che fosse un gesuita costituì un impedimento secondo il giudizio di molti cardinali. Racconta Ludwig Von Pastor storico vaticanista che nei primi giorni del secondo conclave del 1605 un gruppo di cardinali tra i quali Baronio, Sfondrato, Aquaviva, Farnese, Sforza e Piatti si adoperarono per far eleggere il cardinale gesuita Bellarmino; ma questi era contrario tanto che saputo della sua candidatura rispose che avrebbe volentieri rinunciato anche al titolo cardinalizio; il suo appoggio durante il conclave sembra fosse rivolto verso il cardinal Baronio. L'accordo in conclave si trovò poi sul cardinale Camillo Borghese.
Il nuovo Papa Paolo V, eletto con l'accordo delle maggiori potenze cattoliche, insistette nel tenerlo con sé a Roma, e il cardinale chiese che almeno egli fosse esonerato dal ministero episcopale le cui responsabilità egli non era più in grado di adempiere. A questo punto egli fu nominato membro del Sant’Uffizio e di altre congregazioni, e successivamente consigliere principale della Santa Sede nel settore teologico della sua amministrazione. La disputa “De Auxiliis”, che alla fine Clemente non aveva avuto modo di portare a termine, fu conclusa con una decisione che ricalcava le linee dell’originaria proposta di Bellarmino.
Il 1606 segnò l’inizio della contesa tra la Santa Sede e la Repubblica di Venezia, che senza consultare il Papa e versando in cattive condizioni finanziarie, aveva abrogato la legge di esenzione del clero dalla giurisdizione civile e tolto alla Chiesa il diritto di possedere beni immobili. La disputa portò ad una guerra di libelli durante la quale le difese della parte repubblicana furono sostenute
da Giovanni Marsilio e dal frate servita Paolo Sarpi, che si erano posti in netto contrasto con la Chiesa cattolica. In questa disputazione la Santa Sede fu difesa nobilmente dal cardinal Bellarmino e dal cardinal Baronio.
Contemporaneamente alle contrapposizioni della Repubblica Veneziana ci furono quelle concernenti il Giuramento inglese di lealtà. Nel 1606, in aggiunta alle vessazioni già imposte ai cattolici inglesi dai monarchi inglesi, fu chiesto, sotto pena di prœmunire, di prestare un giuramento di fedeltà abilmente formulato con tale astuzia che un cattolico, nel rifiutarlo, sarebbe potuto apparire come un cittadino che si sottraeva ai suoi doveri civili e quindi perseguibile, mentre, se lo avesse effettuato, avrebbe non solo rifiutato ma persino condannato come empio ed eretico l’insegnamento sul potere di deporre, ossia, del potere di deporre un sovrano che, giustamente o erroneamente, la Santa Sede aveva rivendicato ed esercitato per secoli con la piena approvazione della cristianità, e che, anche in quel periodo, la stragrande maggioranza dei teologi continuava a sostenere. Poiché la Santa Sede aveva proibito ai cattolici di prestare questo giuramento, il re inglese Giacomo I d'Inghilterra, divenuto re dopo la morte di Elisabetta I ed essendo re di Scozia, di fede protestante, scrisse la difesa di tal giuramento in un libro intitolato Tripoli nodo triplex cuneus; Bellarmino replicò al monarca con il suo Responsio Matthei Torti.
Altri trattati seguirono dall’uno e dall’altro campo, e, risultato di uno di essi, fu lo scritto a confutazione del potere di deporre i sovrani da parte di William Barclay, famoso giurista scozzese, residente in Francia; al quale si contrappose la replica del Bellarmino. Le confutazioni del giurista scozzese furono poi utilizzate dal Parlamento parigino, di orientamento regalista. La conseguenza fu che, a seguito della dottrina della via media del potere indiretto di deporre i sovrani, il Bellarmino fu condannato nel 1590 come troppo incline alle posizioni regaliste e nel 1605 come eccessivamente papalista.

Il caso Giordano Bruno
L'istruzione di questo processo coinvolse anche Bellarmino che era consultore del Sant'Uffizio e lo portò ad avere alcuni colloqui con l'inquisito durante sette anni dal 1593 al 1600. Il processo si protraeva per il fatto che le ammissioni di eresia che l'imputato ammetteva durante i venti interrogatori a cui fu sottoposto, ed alcuni anche mediante la tortura, erano successivamente smentite davanti alla corte del Tribunale dell'Inquisizione.
Bellarmino non partecipò mai personalmente alle sedute degli interrogatori nei quali si poteva attuare la tortura. Per ordine del Papa Clemente VIII, il 20 gennaio 1600, il tribunale dell’Inquisizione pronunciò il verdetto di condonna al rogo.

Il caso Galileo Galilei
Bellarmino non visse fino all'epilogo del processo e alla condanna a Galileo Galilei, ma nel 1615 egli prese parte alla prima fase. Il cardinale fece parte della commissione vaticana che ammonì Galileo dal continuare ad insegnare la teoria eliocentrica nel 1616 e fu proprio lui a comunicargli l'ammonizione che conteneva con una lettera rimasta famosa.
In precedenza aveva sempre mostrato interesse nelle scoperte dello scienziato e si era trattenuto in amichevole corrispondenza con lui. Aveva pure assunto, come testimoniato dalle sue lettere all'amico di Galileo, Paolo Antonio Foscarini, un atteg
giamento aperto verso le teorie scientifiche, ammonendolo, tuttavia, di non cercare una dimostrazione della loro esattezza limitandosi a porle come ipotesi.
La morte ed il culto
Negli ultimi anni Roberto Bellarmino continuò il suo austero modo di vivere, dedicando molto del suo tempo alla preghiera e ai digiuni, nonostante la sua salute piuttosto precaria. Continuò a fare molte elemosine ai poveri, ai quali lasciò praticamente tutti i suoi averi; contribuì a far ottenere l'approvazione del papa alla fondazione del nuovo Ordine della Visitazione di San Francesco di Sales; inoltre portò a termine la stesura di un "grande catechismo" ed di un "piccolo catechismo", quest'ultimo in particolare ebbe notevole successo e fu ampiamente utilizzato fino a tutto il XIX secolo; infine compose un piccolo e anch'esso famoso testo "De arte bene moriendi" oltre che una sua "Autobiografia".
Egli visse ancora per assistere ad un altro conclave, quello che elesse Gregorio XV nel febbraio 1621. La sua salute stava rapidamente declinando e nell’estate dello stesso anno gli fu permesso di ritirarsi a Sant’Andrea al Quirinale sede del noviziato dei gesuiti, per prepararsi al trapasso. Qui spirò la mattina del 17 settembre 1621. Alla sua morte il suo corpo fu deposto nella cripta della casa professa e dopo circa un anno fu posto nel sepolcro che aveva ospitato il corpo di Sant'Ignazio di Loyola.
Poco dopo la sua morte la Compagnia di Gesù ne propose la causa di beatificazione che ebbe effettivamente inizio nel 1627 durante il pontificato di Urbano VIII, quando gli fu conferito il titolo di venerabile. Tuttavia un ostacolo di natura tecnica, proveniente dalla legislazione generale sulle beatificazioni, emanata da Urbano VIII, comportò una dilazione. Poi l'iter si arenò e anche se la causa fu reintrodotta in numerose occasioni negli anni 1675, 1714, 1752, 1832, e nonostante ad
ogni ripresa la grande maggioranza dei voti fosse favorevole alla sua beatificazione, l'esito positivo arrivò solamente dopo molti anni. Il motivo fu in parte legato al carattere influente di alcuni prelati che espressero parere negativo, come il cardinale e santo Gregorio Barbarigo, il cardinale domenicano e tomista Girolamo Casanate, il famoso cardinale Decio Azzolino juniore nel 1675, il potente cardinale Domenico Passionei nel 1752, quest'ultimo in particolare in frequente contrasto con i gesuiti e vicino alle tesi gianseniste opposte alla tesi molinista della grazia efficace.
Inoltre secondo molti, la causa principale fu il parere circa l'opportunità politica internazionale, dal momento che il nome del cardinale Bellarmino era strettamente associato ad una visione dell’autorità pontificia in netto contrasto con i politici regalisti della corte di Francia dei secoli XVIII e XIX. A tal proposito basti la citazione di Papa Benedetto XIV che scrisse al cardinale de Tencin: «Noi abbiamo confidenzialmente detto al Generale dei Gesuiti che il ritardo della causa è motivato non da materie di poco conto attribuite a suo carico dal cardinale Passionei, ma dalle infelici circostanze dei tempi »

(Études Religieuses, 15 aprile 1896)
Roberto Bellarmino è stato beatificato il 13 maggio 1923 durante il pontificato di Pio XI e fu canonizzato il 29 giugno 1930. Più breve è stato quindi il processo di canonizzazione e rapida la nomina a Dottore della Chiesa conferitagli il 17 settembre 1931 sempre da parte di Pio XI.
È ricordato il 17 settembre e in passato il 13 maggio; è santo patrono dei catechisti, degli avvocati canonisti, della città di Cincinnati negli USA.
Dal 21 giugno 1923 il suo corpo è venerato dai fedeli nella terza cappella di destra della chiesa di Sant'Ignazio di Loyola a Roma, chiesa del Collegio Romano che conserva le reliquie di altri santi gesuiti tra cui San Luigi Gonzaga. Le ossa del suo scheletro sono state ricomposte ed unite con fili d'argento e rivestite con l'abito cardinalizio mentre il volto e le mani sono state ricoperte d'argento; così appare sotto l'altare a lui dedicato.
Alcuni fedeli a lui devoti usano fare questa preghiera: "O Dio, che per il rinnovamento spirituale della Chiesa ci hai dato in San Roberto Bellarmino vescovo un grande maestro e modello di virtù cristiana, fa' che per sua intercessione possiamo conservare sempre l'integrità di quella fede a cui egli dedicò tutta la sua vita".
A lui è intitolato il "Collegio San Roberto Bellarmino" sito nel Palazzo Borromeo a Roma in via del Seminario, di antica storia e appartenente ai gesuiti. Qui attualmente risiedono gli studenti che frequentano la Pontificia Università Gregoriana.
(Fonte: www.sanrobertobellarmino.it)
Proseguendo nelle sue catechesi sui santi vissuti nel XVI secolo, «al tempo della dolorosa scissione della cristianità occidentale, quando una grave crisi politica e religiosa provocò il distacco di intere Nazioni dalla Sede Apostolica» con la frattura protestante, Benedetto XVI ha presentato nell'udienza del 23 febbraio la figura del grande teologo e apologeta san Roberto Bellarmino (1542-1621).
Pochi ricordano - a causa della sua lunga permanenza a Roma - che il santo era nato a Montepulciano ed era nipote, per parte di madre, del Papa Marcello II (1501-1555). Gesuita formatosi a Roma, Padova e Lovanio, fu dapprima professore in quest'ultima università prima di essere chiamato a Roma per tenere un corso di apologetica da cui nacquero, ricorda Benedetto XVI, le «Controversiae», «opera divenuta subito celebre per la chiarezza e la ricchezza di contenuti e per il taglio prevalentemente storico».
L'interesse per l'apologetica non era casuale. «Si era concluso da poco il Concilio di Trento e per la Chiesa Cattolica era necessario rinsaldare e confermare la propria identità anche rispetto alla Riforma protestante». Con Bellarmino l'apologetica acquistò, o meglio riacquistò, dignità di disciplina universitaria, ma il santo sapeva che doveva rivolgersi anche alle persone più semplici: agli anni 1597 – 1598 «risale il suo catechismo, "Dottrina cristiana breve", che fu il suo lavoro più popolare».
A riprova dell'importanza che la Chiesa dell'epoca attribuiva all'apologetica, nel 1599 fu creato cardinale e nominato arcivescovo di Capua. Mantenne la sede diocesana, dove peraltro si distinse per il grande zelo, per soli tre anni. Roma aveva bisogno di lui come guida teologica della Curia e della Chiesa, ruolo incontrastato che svolse per quasi vent'anni, occupando insieme molti e prestigiosi incarichi vaticani.
L'apologetica, ha spiegato il Papa, deve fare fronte in ogni tempo a nuove sfide, ma alcune rimangono sempre uguali. Per questo, gli insegnamenti apologetici di Bellarmino non sono affatto passati di moda. «Le sue "Controversiae" costituirono un punto di riferimento, ancora valido, per l’ecclesiologia cattolica sulle questioni circa la Rivelazione, la natura della Chiesa, i Sacramenti e l’antropologia teologica. In esse appare accentuato l’aspetto istituzionale della Chiesa, a motivo degli errori che allora circolavano su tali questioni. Tuttavia Bellarmino chiarì anche gli aspetti invisibili della Chiesa come Corpo Mistico e li illustrò con l’analogia del corpo e dell’anima, al fine di descrivere il rapporto tra le ricchezze interiori della Chiesa e gli aspetti esteriori che la rendono percepibile. In questa monumentale opera, che tenta di sistematizzare le varie controversie teologiche dell’epoca, egli evita ogni taglio polemico e aggressivo nei confronti delle idee della Riforma, ma utilizzando gli argomenti della ragione e della Tradizione della Chiesa, illustra in modo chiaro ed efficace la dottrina cattolica».
L'apologetica, però, ha bisogno anzitutto di un metodo. La più importante eredità del santo, ha detto il Papa, «sta nel modo in cui concepì il suo lavoro. I gravosi uffici di governo non gli impedirono, infatti, di tendere quotidianamente verso la santità con la fedeltà alle esigenze del proprio stato di religioso, sacerdote e vescovo. Da questa fedeltà discende il suo impegno nella predicazione. Essendo, come sacerdote e vescovo, innanzitutto un pastore d’anime, sentì il dovere di predicare assiduamente. Sono centinaia i sermones – le omelie – tenuti nelle Fiandre, a Roma, a Napoli e a Capua in occasione delle celebrazioni liturgiche. Non meno abbondanti sono le sue expositiones e le explanationes ai parroci, alle religiose, agli studenti del Collegio Romano, che hanno spesso per oggetto la sacra Scrittura, specialmente le Lettere di san Paolo. La sua predicazione e le sue catechesi presentano quel medesimo carattere di essenzialità che aveva appreso dall’educazione ignaziana, tutta rivolta a concentrare le forze dell’anima sul Signore Gesù intensamente conosciuto, amato e imitato».
L'apologeta può talora dover adottare toni forti, ma l'essenziale è che la sua opera sia animata dalla vita interiore e dalla preghiera. Il santo offre dunque anche «un modello di preghiera, anima di ogni attività». Il Pontefice ha richiamato un'opera non molto conosciuta di Bellarmino, «De ascensione mentis in Deum »- «Elevazione della mente a Dio» -, dove leggiamo: «O anima, il tuo esemplare è Dio, bellezza infinita, luce senza ombre, splendore che supera quello della luna e del sole. Alza gli occhi a Dio nel quale si trovano gli archetipi di tutte le cose, e dal quale, come da una fonte di infinita fecondità, deriva questa varietà quasi infinita delle cose. Pertanto devi concludere: chi trova Dio trova ogni cosa, chi perde Dio perde ogni cosa».
«In questo testo - commenta Benedetto XVI - si sente l’eco della celebre contemplatio ad amorem obtineundum – contemplazione per ottenere l’amore - degli Esercizi spirituali di Sant’Ignazio di
Loyola [1491-1556]. Il Bellarmino, che vive nella fastosa e spesso malsana società dell’ultimo Cinquecento e del primo Seicento, da questa contemplazione ricava applicazioni pratiche e vi proietta la situazione della Chiesa del suo tempo con vivace afflato pastorale».
L'eco degli «Esercizi» ignaziani, aggiunge il Papa, si ritrova in altre importanti opere spirituali del santo. «Nel libro "De arte bene moriendi" – l’arte di morire bene - ad esempio, indica come norma sicura del buon vivere, e anche del buon morire, il meditare spesso e seriamente che si dovrà rendere conto a Dio delle proprie azioni e del proprio modo di vivere, e cercare di non accumulare ricchezze in questa terra, ma di vivere semplicemente e con carità in modo da accumulare beni in Cielo. Nel libro "De gemitu columbae" - Il gemito della colomba, dove la colomba rappresenta la Chiesa - richiama con forza clero e fedeli tutti ad una riforma personale e concreta della propria vita seguendo quello che insegnano la Scrittura e i Santi». A chi parla di riforme, Bellarmino «insegna con grande chiarezza e con l’esempio della propria vita che non può esserci vera riforma della Chiesa se prima non c’è la nostra personale riforma e la conversione del nostro cuore».
Non si potrebbe insistere troppo, sottolinea il Papa, sull'importanza degli «Esercizi» ignaziani per l'apologetica. «Agli Esercizi spirituali di sant’Ignazio, il Bellarmino attingeva consigli per comunicare in modo profondo, anche ai più semplici, le bellezze dei misteri della fede. Egli scrive: “Se hai saggezza, comprendi che sei creato per la gloria di Dio e per la tua eterna salvezza. Questo è il tuo fine, questo il centro della tua anima, questo il tesoro del tuo cuore. Perciò stima vero bene per te ciò che ti conduce al tuo fine, vero male ciò che te lo fa mancare. Avvenimenti prosperi o avversi, ricchezze e povertà, salute e malattia, onori e oltraggi, vita e morte, il sapiente non deve né cercarli, né fuggirli per se stesso. Ma sono buoni e desiderabili solo se contribuiscono alla gloria di Dio e alla tua felicità eterna, sono cattivi e da fuggire se la ostacolano” (De ascensione mentis in Deum, grad.».
Cose d'altri tempi? No, assicura Benedetto XVI. «Queste, ovviamente, non sono parole passate di moda, ma parole da meditare a lungo oggi da noi per orientare il nostro cammino su questa terra. Ci ricordano che il fine della nostra vita è il Signore, il Dio che si è rivelato in Gesù Cristo, nel quale Egli continua a chiamarci e a prometterci la comunione con Lui. Ci ricordano l’importanza di confidare nel Signore, di spenderci in una vita fedele al Vangelo, di accettare e illuminare con la fede e con la preghiera ogni circostanza e ogni azione della nostra vita, sempre protesi all’unione con Lui». Nulla di diverso è la vera apologetica.

(Autore: Massimo Introvigne - Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Roberto Bellarmino, pregate per noi.

*San Rodingo di Beaulieu - Abate (17 Settembre)
Martirologio Romano: Nei boschi delle Argonne lungo la Mosa in Austrasia nel territorio dell’odierna Francia, San Rodingo, abate, che fondò il monastero di Beaulieu e lo resse piamente.
(Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Rodingo di Beaulieu, pregate per noi.

*Beato Santos Alvaro Cejudo - Ferroviere, Martire (17 Settembre)

Schede dei Gruppi a cui appartiene:
“Beati Martiri Spagnoli della Diocesi di Ciudad Real” - Senza Data (Celebrazioni singole)
“Beati 498 Martiri Spagnoli Beatificati nel 2007” - 6 novembre
“Martiri della Guerra di Spagna” - Senza Data (Celebrazioni singole)

Daimiel, Spagna, 19 febbraio 1880 - Alcázar de San Juan, Spagna, 17 settembre 1936
Buon padre di famiglia e ferroviere di professione, fu un Adoratore Notturno esemplare e devoto al Sacro Cuore di Gesù.
Nel carcere di Santa Cruz di Mudela ebbe a scrivere: «Cuando somos bautizados se nos perdona el pecado original, pero cuando derramamos la sangre por Jesucristo, como la derramaré yo, se nos perdonan los pecados de toda la vida».
É stato beatificato il 28 ottobre 2007.

(Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beato Santos Alvaro Cejudo, pregate per noi.

*San Satiro - Fratello dei Santi Ambrogio e Marcellina (17 Settembre)

Treveri, 334 - Milano, 378
Uranio Satiro, nato a Treviri nel 334, fratello maggiore di Sant'Ambrogio, venne a Milano nel 375 per aiutare il fratello Vescovo. Morì nel 378 ed è sepolto nella Basilica Ambrosiana.
Patronato: Patrono dei sacrestani dell'Arcidiocesi di Milano.

Martirologio Romano: A Milano, deposizione di San Satiro, i cui meriti sono ricordati da Sant’Ambrogio, suo fratello: non ancora iniziato ai misteri di Cristo, avendo fatto naufragio, non temette la morte, ma, per non lasciare la vita senza aver ricevuto i sacramenti, salvato dalle onde aderì alla Chiesa di Dio; un’intimo e reciproco affetto lo unì al fratello Ambrogio, che lo seppellì accanto al santo martire Vittore.
Le uniche fonti a nostra disposizione circa la vita di Uranio Satiro, fratello dei santi Aurelio Ambrogio di Milano e Marcellina, sono i due discorsi “De excessu fratris” (“Sulla dipartita del fratello”) che il santo vescovo pronunciò, uno il giorno della sua morte e l’altro una settimana dopo. Paolino, nella sua Vita di Ambrogio, non ne fa alcuna menzione.
Satiro nacque probabilmente nel 330 o nel 332 d. C. ed era il secondo dei tre fratelli, preceduto da Marcellina. Il luogo che gli diede i natali è discusso: forse Treviri, dove certamente nacque Ambrogio, o forse Roma, dove la famiglia si trasferì perché appartenente all’aristocrazia senatoria. In giovane età, i due fratelli maschi intrapresero la carriera forense e divennero governatori di due province dell’impero romano: quella di Emilia-Liguria per il minore, mentre per l’altro non è precisato quale fosse. Ciò che più conta è che fu, per i suoi sottoposti, «un padre piuttosto che un giudice», come è attestato nel primo dei due discorsi sopra citati.
Quando, nel 374, Ambrogio divenne vescovo di Milano, Satiro lasciò i suoi incarichi pubblici, con un intento preciso: sollevare il fratello dalle incombenze relative all’amministrazione della Diocesi, difendere Marcellina e il suo proposito di verginità e occuparsi del patrimonio di famiglia. Dato che, fra le virtù menzionate nei due discorsi funebri, risalta in maniera particolare la sua castità, pare certo che non si sia mai sposato, proprio per essere più libero nel sostenere i suoi congiunti.
A dimostrazione del suo operato attento, Ambrogio cita un fatto avvenuto probabilmente fra l’autunno del 377 e l’inverno del 378.
Un certo Prospero, a cui erano stati affidati dei possedimenti in Africa, si era appropriato di una somma di denaro che non gli spettava e non intendeva restituirla; Satiro intervenne e risolse la situazione.
In ogni caso, non era nuovo a comportamenti del genere: quando, come in tutte le famiglie, sorgevano dissidi fra il fratello vescovo e la sorella vergine consacrata, veniva da loro scelto come arbitro e riusciva sempre a non scontentare nessuno dei due. L’armonia e l’accordo erano in realtà predominanti, a tal punto che, quando Ambrogio veniva scambiato per Satiro in base ad una particolare somiglianza fisica fra di loro, gioiva se gli venivano rivolte delle lodi che in realtà andavano a suo fratello.
Di ritorno dall’Africa, fatta tappa in Sicilia, l’uomo avvertì i sintomi di una non ben precisata malattia. Forse a quell’epoca risale un episodio che avrebbe poi goduto di una certa fortuna in campo iconografico: durante il ritorno a casa, la nave di Satiro incappò in una tempesta.
Lui non aveva ancora completato il cammino dei sacramenti cristiani, ma richiese con insistenza ai compagni di viaggio un frammento di pane eucaristico: se lo legò al collo con un fazzoletto e poi si gettò in mare, «ritenendosi in tal modo – afferma Ambrogio – protetto e difeso a sufficienza». Giunto a riva, quasi certamente in Sardegna, avrebbe voluto ricevere il Battesimo, ma, una volta
appreso che il vescovo locale aderiva allo scisma di Lucifero, vescovo di Cagliari, decise di rimandare finché non avrebbe trovato un suo pari, fedele però a Roma e al Papa. Finalmente «ricevette la sospirata grazia di Dio e, ricevutala, la conservò integra», vivendo in maniera sobria e trattando il denaro senza attaccarsi troppo ad esso.
Non visse molto a lungo dopo quell’incidente: la malattia ricomparve e lo condusse alla morte nel 378. Ambrogio, come detto, lo ricordò pubblicamente e volle che i suoi resti mortali riposassero accanto a quelli del martire Vittore, nel sacello detto di San Vittore in Ciel d’Oro. Da lì furono traslati, insieme a quelli dell’altro santo, in un sarcofago pagano riadattato ad uso cristiano, e vi rimasero anche quando le ossa di Vittore furono portate nella basilica detta appunto di San Vittore in Corpo, retta dai Benedettini Olivetani.
Intorno al 1560, però, i monaci del luogo affermarono di possedere gli autentici resti del fratello di Ambrogio: sorse una disputa che si concluse definitivamente solo nel 1941, quando, sotto l’episcopato del Beato cardinal Alfredo Ildefonso Schuster, una relazione storica, archeologica ed anatomica stabilì che nel sarcofago conservato nella Basilica Ambrosiana c’erano i resti di un uomo sui quarant’anni, di corporatura normale, molto simili a quelli del santo vescovo milanese. Dal 1980 sono collocati in un’urna di cristallo, nella prima cappella a destra per chi entra in sant’Ambrogio.
Il culto di san Satiro è attestato per la prima volta intorno al IX secolo, quando l’arcivescovo Ansperto da Biassono fece costruire una piccola basilica dedicata ai santi Satiro, Ambrogio e Silvestro, ponendola sotto la giurisdizione del monastero benedettino di sant’Ambrogio. Consacrata forse nel 1036 dall’arcivescovo Ariberto d’Intimiano, fu poi inglobata nella chiesa di Santa Maria presso San Satiro, progettata dal Bramante.
Dal X secolo il nome del santo compare in alcuni calendari e libri liturgici ambrosiani alla data del 18 settembre, forse per confusione con un altro personaggio omonimo. La sua memoria liturgica è stata poi fissata al giorno precedente.
In base al suo amore per l’Eucaristia e al ruolo rivestito accanto al fratello vescovo, i sacrestani dell’Arcidiocesi di Milano considerano san Satiro il loro patrono. Come però osserva monsignor
Marco Navoni, Dottore della Biblioteca-Pinacoteca Ambrosiana, il suo patrocinio andrebbe esteso su tutti quei laici che spendono tempo ed energie per aiutare i sacerdoti ad essere più liberi nel compiere la loro missione fondamentale.
Preghiera (Orazione a conclusione della Liturgia della Parola della Messa propria)
Nel ricordo del beato Satiro
concedi, o Dio misericordioso, ai tuoi figli
la perseveranza nella grazia battesimale,
l’innocenza della vita e lo spirito di sacrificio
perché possano crescere nel mondo come segni
eloquenti della tua volontà di salvezza.
Per Cristo nostro Signore. Amen.

(Autore: Emilia Flocchini - Fonte: Enciclopedia dei Santi)

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*Beato Sigismondo (Zygmunt) Sajna - Sacerdote e Martire (17 Settembre)
Scheda del gruppo a cui appartiene:
“Beati 108 Martiri Polacchi”
Zurawlówka, Polonia, 20 gennaio 1897 – Palmiry, Polonia, 17 settembre 1940
Il Beato Zygmunt Sajna, sacerdote diocesano, nacque a Zurawlówka (Podlasie), Polonia, il 20 gennaio 1897 e morì a Palmiry il 17 settembre 1940.
Fu beatificato da Giovanni Paolo II a Varsavia (Polonia) il 13 giugno 1999 con altri 107 martiri polacchi.

Martirologio Romano: Nella foresta di Palmiry vicino a Varsavia in Polonia, Beato Sigismondo Sajna, sacerdote e martire, che, durante la guerra, morì fucilato per non avere accettato di rinnegare la fede davanti a un regime straniero e ostile a Dio.
(Fonte: Enciclopedia dei Santi)
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*Beato Sigismondo Felice Felinski - Vescovo di Varsavia (17 Settembre)

Wojutyn, Ucraina, 1 novembre 1822 - Cracovia, Polonia, 17 settembre 1895
Beatificato da Giovanni Paolo II il 18 agosto 2002 e canonizzato da Benedetto XVI l'11 ottobre 2009.
Martirologio Romano: A Cracovia in Polonia, beato Sigismondo Felice Felinski, vescovo di Varsavia, che si adoperò tra grandi difficoltà per la libertà e il rinnovamento della Chiesa, fondando l’Istituto delle Suore Francescane della Famiglia di Maria al servizio del popolo in ogni suo bisogno.
Sigismondo Felice Felinski nacque il 1° novembre 1822 a Wojutyn (diocesi di ?uck, prov. Wo?yn´), allora territorio polacco oggi ucraino, da una famiglia nobile e religiosa. Fu il settimo degli undici figli di Gerard ed Ewa Wendorff.
A undici anni rimase orfano del padre; cinque anni dopo la madre, a causa della sua attività patriottica, fu deportata in Siberia.
Dopo gli studi ginnasiali, Sigismondo studiò matematica all'Università di Mosca e a Parigi frequentò i corsi alla Sorbona e al College de France. Prese la decisione di diventare sacerdote e nel 1851
ritornò in patria per entrare nel Seminario di Z?ytomierz.
Continuò la sua formazione presso l'Accademia Ecclesiastica di Pietroburgo. Ordinato sacerdote l'8 settembre 1855 svolse azione pastorale e d'insegnamento.
Il 6 gennaio 1862 il Beato Papa Pio IX lo nominò Arcivescovo metropolita di Varsavia. Fece il suo ingresso in diocesi nel febbraio successivo, ma vi trovò subito una difficile situazione politico-religiosa, oltre a tanta diffidenza. Ciononostante avviò subito una decisa azione di rinascita spirituale e morale della nazione, incrementò la preparazione del Clero, la catechesi al popolo, l'assistenza dei poveri e dei bambini che affidò alle cure delle Suore della Famiglia di Maria, da lui stesso fondata a Pietroburgo fin dal 1857. Con coraggio si dedicò alla difesa della libertà della Chiesa di fronte allo Stato.
Dopo il fallimento dell'Insurrezione del gennaio 1863, per la sua fedeltà a Roma e i suoi contatti con la Sede Apostolica senza la mediazione del governo zarista, il 14 giugno 1863 fu deportato in Russia e condannato all'esilio a Jaroslavl sul Volga. Vi rimase per 20 anni, continuando però ad assistere spiritualmente i cattolici e gli esiliati in Siberia e dedicandosi al risveglio del
cattolicesimo nell'Impero russo, riuscì a costruire una chiesa.
Liberato per intervento della Santa Sede nel 1883, non gli fu concesso di tornare a Varsavia.
Fu fatto Arcivescovo titolare di Tarso. Passò gli ultimi 12 anni della sua vita nella Galizia a Dz?winiaczka (diocesi di Leopoli), in semi-esilio sotto il dominio austriaco.
Anche qui però lavorò instancabilmente per il bene spirituale dei contadini polacchi e degli ucraini. Si preoccupò della loro istruzione erigendo la prima scuola del paese, aprì un asilo per l'infanzia, costruì una chiesa e il convento per le suore della Famiglia di Maria. Morì a Cracovia il 17 settembre 1895 in concetto di santità.
Le sue spoglie mortali riposano nella chiesa cattedrale di Varsavia dall'aprile 1921. Fu dichiarato Venerabile da Giovanni Paolo II il 14 aprile 2001.

(Fonte: Santa Sede)

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*San Stanislao di Gesù Maria (Jan Papczynski) - Sacerdote, Fondatore (17 Settembre)
Podegrodzie, Polonia, 18 maggio 1631 - Góra Kalwaria, Polonia, 17 settembre 1701
Jan Papczynski nacque il 18 maggio 1631 a Podegrodzie, in Polonia. Entrato tra i padri Scolopi col nome di Stanislao di Gesù Maria, divenne sacerdote nel 1619. Il suo impegno per una maggior osservanza della Regola lo vide costretto a chiedere di essere dimesso dalla congregazione, per evitare ulteriori attriti con i confratelli della Provincia polacca.
L’11 dicembre 1670 compì un atto di offerta a Dio e alla Vergine Immacolata, promettendo di impegnarsi a propagandarne il culto con la fondazione di un nuovo istituto, i Chierici mariani sotto il titolo della Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria.
Padre Stanislao propose la sua idea di vita religiosa a un gruppo di eremiti che vivevano a Puszcza
Korabiewska (attuale Puszcza Mariańska). L’ordine – l’ultimo di chierici regolari nella storia della Chiesa – ricevette l’erezione canonica dal vescovo di Poznań.
L’approvazione pontificia avvenne il 21 settembre 1699. Tra le sue particolarità, oltre a quella della difesa dell’Immacolata Concezione, entrarono anche la preghiera per le anime del Purgatorio, specie quelle dei soldati e di coloro che muoiono improvvisamente, e la predicazione ai contadini scarsamente istruiti dal punto di vista religioso.
Padre Stanislao, ormai malato, morì il 17 settembre 1701 a Nowa Jerozolima (oggi Góra Kalwaria), nel piccolo convento attiguo alla chiesetta detta “Cenacolo del Signore”, dove attualmente è sepolto. È stato beatificato il 16 settembre 2007 e canonizzato domenica 5 giugno 2016.

Nascita e primi anni

Jan Papczyński nacque il 18 maggio 1631 a Podegrodzie, in Polonia, probabilmente ultimogenito del fabbro Tommaso e di Sofia, nativa di Tacikowska. Quasi nulla sappiamo di suo fratello Pietro e delle altre sei sorelle. Terminati gli studi elementari, frequentò la scuola media parrocchiale di Podegrodzie tra il 1649 e 1650, poi presso i collegi gesuiti di Leopoli ed a Rawa Mazowiecka. Qui nel 1654 completò anche il biennio di filosofia.
Sacerdote tra gli Scolopi
Entrò dunque dagli Scolopi nel noviziato di Podoliniec, assumendo il nome religioso di Stanislao di Gesù Maria. Durante il secondo anno di noviziato intraprese a Varsavia gli studi teologici e qui nel 1656 professò i voti semplici. Fu ordinato diacono e, nel, 1661 sacerdote.
Padre Stanislao si distinse innanzitutto quale maestro di retorica, ma durante il suo soggiorno a Varsavia, tra il 1663 ed il 1669, divenne anche famoso come predicatore e confessore.
Tra i penitenti che si rivolsero a lui vi fu anche il nunzio apostolico in Polonia, Antonio Pignatelli, poi asceso al soglio di Pietro col nome di Innocenzo XII. Il Santo sacerdote prestava inoltre particolare attenzione ai problemi interni al suo istituto e fu promotore di una più stretta osservanza della regola, nonché di un maggior peso dei religiosi della provincia polacca nell’elezione dei loro superiori.

Dimissioni e fondazione dei Chierici Mariani
La provincia era però divisa su tali argomenti in due fazioni nettamente contrapposte e per riportare la pace al Papczyński non restò che chiedere nel 1670 la dimissione dalle Scuole Pie.
Intraprese dunque la fondazione di un nuovo ordine religioso, i Chierici Mariani dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria, che con ben due secoli d’anticipo rispetto alla proclamazione pontificia di tale dogma promosse il culto di cotanto singolare privilegio mariano. A tal fine scelse per la novella congregazione l’abito bianco, che egli stesso assunse nel 1671.
Per dare maggiore impulso alla sua opera decise di associarsi con Stanislao Krajewski ed i suoi compagni, che vivevano nell’eremitaggio di Korabiew, odierna Puszcza Mariańska. Padre Papczyński fu nominato superiore dal vescovo Swiecicki il 24 ottobre 1673 e proprio tale data è comunemente considerata quale fondazione ufficiale dei Padri Mariani.

Erezione canonica e carattere specifico
L’unione suddetta impose a questi ultimi un’impostazione di vita eremitica e penitenziale di stretta clausura, ma ciò fu di aiuto per giungere nel 1679 all’erezione canonica, pur non concordando propriamente con il carattere che il fondatore voleva imprimere al nascente istituto, per esempio nell’opera di assistenza pastorale ai parroci.
Spinto dalle esperienze mistiche delle pene del Purgatorio e dalle richieste rivoltegli dalle anime dei soldati caduti in battaglia contro i turchi, padre Stanislao sin dal 1676 volle includere tra le principali finalità della congregazione il suffragio per le anime maggiormente bisognose del Purgatorio, in particolare le vittime della guerra e della peste.

Attività apostolica e consolidamento della congregazione
Dal 1677 ottenette una seconda casa, cioè quella di Nuova Gerusalemme presso l’odierna Góra Kalwaria, ove lui stesso si stabilì e rimase sino alla morte nel piccolo convento attigua alla chiesetta detta “Cenacolo del Signore”. Qui svolse un’intensa attività apostolica, anche in favore della povera gente delle campagne.
Rimase sempre attento all’osservanza della regola e si dedicò con premura al governo dell’istituto religioso. Onde provvedere ad una sua maggiore stabilità giuridica ed alla possibilità di emettere i voti solenni da parte dei mariani, ma solo nel 1699 ottenne l’approvazione pontificia che, ritenendo la “Norma Vitae” quale Costituzioni, concedette loro la Regola delle Dieci Virtù della Beata Vergine Maria, che comportò però l’aggregazione all’Ordine Serafico degli Osservanti.

La morte e la sua eredità
Ormai seriamente malato, il santo fondatore morì il 17 settembre 1701, lasciando parecchi scritti spirituali.
A quel tempo l’ordine contava solo una ventina di membri, ma nel XVIII secolo trovarono nuovo vigore grazie all’opera riformatrice intrapresa da Padre Casimiro Wyszynski e nel 1786 papa Pio VI concesse loro l’indipendenza dagli Osservanti.
Nel 1908 i Mariani erano ormai ridotti ad un solo membro, ma il provvidenziale ingresso del beato Giorgio Matulaitis portò ad una nuova riforma che diede nuova vita a questa famiglia religiosa, portandola a contare centinaia di membri in tutto il mondo: Polonia, Stati Uniti d’America, Inghilterra, Portogallo, Germania, Argentina, Brasile, Australia, Lituania, Lettonia e Italia; la Casa generalizia è a Roma.

La causa di beatificazione
Mentre era ancora in vita, padre Stanislao di Gesù Maria era circondato da un’incontestata fama di santità e già nel 1751 fu promossa la causa per portarlo alla gloria degli altari. È facile comprendere il motivo per cui i processi si protrassero per secoli, vista la movimentata storia dell’ordine, ma con il primo papa polacco, San Giovanni Paolo II, la causa ritrovò lo slancio decisivo: il 13 giugno 1992 il Pontefice autorizzò la promulgazione del decreto con cui lui veniva dichiarato Venerabile.
Il primo miracolo e la beatificazione
Sotto il pontificato di Benedetto XVI, il 16 dicembre 2006, è stato riconosciuto un miracolo attribuito alla sua intercessione: la nascita di un bambino polacco, Sebastian, avvenuta nel 2001, nonostante fossero sopraggiunte complicazioni durante la gravidanza. La beatificazione si è svolta
a Lichen, in Polonia, il 16 settembre 2007, presieduta dall’allora Segretario di Stato vaticano, cardinal Tarcisio Bertone, come inviato del Santo Padre.
Il secondo miracolo e la canonizzazione
Come secondo miracolo per la canonizzazione è stata convalidata la guarigione di una giovane donna polacca, Barbara. Mentre era prossima al matrimonio, nella Quaresima del 2008, prese ad avere qualche problema respiratorio, poi perse conoscenza ed entrò in terapia intensiva. Sua madre ricevette nella sua parrocchia un libretto con la novena per chiedere grazie mediante il Beato Stanislao e iniziò la preghiera: nel giro di pochi giorni, Barbara riprese conoscenza e, quando venne sottoposta a esame radiologico, si vide che i polmoni non avevano alcun segno di malattia. Si sposò poche settimane dopo; oggi ha due bambini.
La canonizzazione è stata celebrata da papa Francesco domenica 5 giugno 2016 a Roma, insieme a quella della Beata Maria Elisabetta Hesselblad, durante il Giubileo straordinario della Misericordia.

(Autore: Don Fabio Arduino ed Emilia Flocchini - Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Stanislao di Gesù Maria, pregate per noi.

*Beato Timoteo Valero Perez - Sacerdote e Martire (17 Settembre)
Schede dei gruppi a cui appartiene:
“Beati Martiri Spagnoli Terziari Cappuccini dell'Addolorata”
“Beati 233 Martiri Spagnoli di Valencia” Beatificati nel 2001
“Martiri della Guerra di Spagna”

Martirologio Romano: A Madrid sempre in Spagna, Beato Timoteo Valero Pérez, sacerdote del Terz’Ordine di San Francesco degli Incappucciati della Beata Vergine Addolorata e martire, che nella stessa persecuzione affrontò la gloriosa prova per Cristo.
(Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beato Timoteo Valero Perez, pregate per noi.

*Altri Santi del giorno (17 Settembre)

*Sant'Alberto di Gerusalemme - Vescovo e Martire
Giaculatoria - Santi tutti, pregate per noi.

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